La Flora del Parco Archeologico e Naturale di Monte Sannace

di Mirella Campochiaro 

 

 

INTRODUZIONE                                                                                            

 

1. L’AREA ARCHEOLOGICA DI MONTE SANNACE                                   

1.1 Generalità                                                                                                        

1.2 Cenni di archeologia                                                                                    

 

 

2. LA VEGETAZIONE NELLE AREE ARCHEOLOGICHE                         

2.1 Generalità                                                                                                       

2.2 Le piante infestanti e loro strategie biologiche                                                      

2.3 I mezzi per combatterle                                                                                     

2.4 I diserbi nell’area archeologica di Monte Sannace                                                

 

3. MATERIALI E METODI.                                                                            

3.1 Lineamenti geologici e pedologici                                                                

3.2 Lineamenti bioclimatici                                                                                 

3.2.1. Indici bioclimatici di Rivas-Martinez                                                               

3.2.2. Indice di aridità di De Martonne                                                                      

3.2.3. Quoziente pluviotermico di Emberger                                                           

3.3 La flora del Parco Archeologico e Naturale di Monte Sannace                  

3.4  Indici bioecologici di Pignatti-Ellemberg                                                      

3.5 Indice di Pericolosità di Signorini ed il controllo delle infestanti                                                                                                   

4. RISULTATI                                                                                                       

4.1 Lineamenti geologici e pedologici                                                                   

4.2 Lineamenti bioclimatici                                                                                    

4.3 La flora del Parco Archeologico e Naturale di Monte Sannace       

4.3.1 Analisi floristica                                                                                            

4.3.2 Note floristiche, tassonomiche ed ecologiche su alcune specie caratteristiche del Parco Archeologico e Naturale di  Monte Sannace     

4.4 Indici bioecologici di Pignatti-Ellemberg                                                         

4.5 Indice di Pericolosità di Signorini                                                                    

 

5. CONCLUSIONI       

                                                                                       

BIBLIOGRAFIA          

 

ALLEGATI (Elenco floristico e indici di pericolosità)                                                                                 

 

 

INTRODUZIONE

 

 

Lo studio e la conoscenza della diversità vegetale rientra in uno dei filoni di ricerca di più grande attualità, soprattutto perché collegato direttamente alle scelte gestionali e politiche dell’uomo nei confronti dell’ambiente in cui vive, alle problematiche della conservazione della natura ed allo sfruttamento delle risorse.

Notevole interesse hanno destato, negli ultimi decenni, gli studi condotti all’interno di  aree archeologiche, considerando che la vegetazione è spesso causa di biodeterioramenti, lesioni e danni al nostro patrimonio storico- archeologico. Dunque in questi luoghi,  inestimabili testimoni della storia dell’umanità, la gestione della componente botanica assume un’importanza fondamentale.

Molto spesso, l’esigenza della tutela del verde può scontrarsi con gli interventi finalizzati al suo “controllo”, con la funzione estetico-ricreativa  delle piante e con l’eventuale interesse scientifico-ecologico di specie e/o comunità vegetali viventi nell’area considerata (Guglielmo  et alii, 2005). 

Infine l’integrazione tra monumenti e paesaggio naturale rappresenta oggi un aspetto di primaria importanza nell’istituzione di parchi archeologici e, secondo una nuova ottica, si ritiene opportuno rispettare il paesaggio botanico originario con la stessa attenzione dedicata alla conservazione dei monumenti. L’impianto o la gestione ottimale delle specie vegetali autoctone compatibili con gli antichi manufatti è quindi complementare alla salvaguardia dei monumenti e fa parte di una unica, irrinunciabile operazione di restauro ambientale.

In questo lavoro è stata compiuta un’indagine floristica in un’area archeologica molto importante della Regione Puglia, Monte Sannace, situata in territorio di Gioia del Colle e sede di un parco archeologico e naturale. Si parla di un vero e proprio “Parco”, una realtà diversa e più complessa rispetto alla semplice “area archeologica”, un luogo che si presta particolarmente, per proprie caratteristiche, a realizzare una  perfetta integrazione tra emergenze monumentali e paesaggio naturale. Da una parte, infatti, abbiamo la rilevanza archeologica del sito, che è uno dei più importanti della Puglia antica e si è conservato integro e privo di sovrapposizioni successive; dall’altra c’è l’aspetto paesaggistico- ambientale anch’esso suggestivo, che non svolge solo una questione accessoria, ma che assume un ruolo essenziale nella valorizzazione del sito (A. Ciancio, 2004).

Alla luce di queste considerazioni, questo studio nasce, appunto,  per caratterizzare la componente botanica del parco, con due scopi fondamentali:

ü      conoscerne l’ intrinseco valore naturalistico;

ü      analizzarne l’impatto sui resti archeologici.  

A questo scopo, nella prima fase del lavoro, sono state effettuate numerose escursioni nell’area, nel corso delle quali è stato possibile rilevare le caratteristiche ecologiche stazionali principali e sono stati raccolti  molteplici campioni da erbario, in modo da consentire una più accurata identificazione delle specie in laboratorio.

La seconda fase di lavoro è stata caratterizzata dall’analisi dei campioni e dei dati prelevati in campo e dalla stesura di un elenco floristico che riporta tutte le entità rinvenute nel parco archeologico;  si è cercato, successivamente, di ricostruire, grosse linee, i caratteri bioclimatici ed ecologici della zona sfruttando anche la bioindicazione fornita dalle specie vegetali (indici biolecologici di Ellemberg-Pignatti) ed, infine, sono state compiute delle elaborazioni  sulla pericolosità delle singole specie nei confronti dei manufatti archeologici, sfruttando il metodo di Signorini (Indice di Pericolosità delle Specie, Signorini, 1995).

 

1. L’AREA ARCHEOLOGICA DI MONTE SANNACE.

 

 

1.1 Generalità.

 

Il Parco Archeologico e Naturale  di Monte Sannace  si trova 5 km a nord-ovest del comune di Gioia del Colle, sulla strada provinciale verso Turi ; è situato, dunque, a cavallo tra le Murge di nord-ovest e quelle di sud-est, sostenuto da un basamento di calcare cretaceo, con suolo talora scarso, talora più profondo e, localmente, con abbondante pietrosità superficiale.

Il clima, seguendo la classificazione di Rivas-Martinez è di tipo Mediterraneo, in particolare il termotipo individuato è mesomediterraneo; in estate le massime superano frequentemente i 30°C, mentre, in inverno, raramente il termometro scende sotto lo 0. Il regime pluviometrico rispecchia il caratteristico andamento mediterraneo: poco meno di 600 mm annui si concentrano nei mesi autunnali ed invernali, mentre in estate si registrano almeno due mesi (luglio-agosto) di siccità.

La presenza, nel Parco, di resti archeologici scrivibili al periodo peuceta, impone un certo tipo di gestione della vegetazione, che deve essere, necessariamente e sistematicamente, controllata e diserbata, affinché non comprometta l’integrità dei manufatti e consenta la fruizione da parte dei visitatori.

 

1.2 Cenni di archeologia.

 

Per la sua felice posizione geografica, Monte Sannace rappresenta un’area abitata dall’uomo fin dal neolitico.

L’istituzione del Parco e del Museo Archeologico Nazionale da parte della Soprintendenza   alle Antichità della Puglia e del Materano è avvenuta nel 1977.

Benché la rilevanza archeologica della località risultasse già dal settecento, campagne regolari di scavo furono avviate solo a partire dal secolo scorso, mentre, in precedenza, l’attività di scavo era per lo più clandestina e operata dai proprietari terrieri, dai contadini e dai tombaroli. Il  primo scavo, che mise in luce sepolture ed un tratto della cinta muraria, si ebbe nel 1929 per iniziativa dell’Ente provinciale per la tutela dei monumenti in provincia di Bari e fu condotto dall’allora direttore del museo, Michele Gervasio. Nel 1957 la Sovrintendenza alle Antichità della Puglia e del Materano avviò campagne di scavo sotto la direzione di Maria Scarfi, che si prolungarono fino al 1961 e riguardarono prima la zona pianeggiante dell’insediamento, poi l’area dell’acropoli alla sommità del colle.  L’attenzione tornò a focalizzarsi sul sito a metà degli anni settanta, quando prese avvio l’iter per l’istituzione dell’area Archeologica e ripresero gli scavi; si portarono, quindi, alla luce  abitazioni e tombe nella parte bassa, una grande casa aristocratica, grandi tombe ed un edificio pubblico nell’acropoli.

Le ricerche  vengono riprese nel 1992; dal 1994 sull’acropoli è presente un campo di attività della Scuola di specializzazione per Archeologi dell’Università di Bari.

Nel contempo sono stati compiuti diversi interventi di restauro e manutenzione finalizzati alla conservazione e fruizione del sito, come la realizzazione della viabilità interna ed il restauro della masseria Montanaro, che ora funziona come centro di accoglienza per i visitatori e come orientamento alla visita.

Le prime tracce di frequentazione risalgono al neolitico, ma un insediamento stabile è documentato a partire dal IX secolo A. C. e perdura fino al I d. C., corrispondente al periodo ellenistico-romano.

Nella prima età del Ferro, tra IX e VIII secolo a. C. un piccolo nucleo di capanne occupa la sommità del colle, mentre altri insediamenti punteggiano la pianura circostante, concentrandosi in prossimità delle fonti idriche, a testimonianza di attività prevalentemente agricole.

Tra   VII e VI secolo a. C. lo stanziamento ubicato sulla sommità della collina si afferma come punto di riferimento per i nuclei minori distribuiti intorno, grazie alla possibilità di una difesa più pronta ed efficace dagli assalti nemici. Gradualmente l’abitato assume una fisionomia urbana, si dota di una cinta muraria, sorgono complessi abitativi ed edifici pubblici con funzione politica e religiosa e vengono costruite tombe monumentali, destinate agli aristocratici e corredate da ricchi oggetti di importazione greca. Case e tombe si attestano anche nella piana a ovest del colle e l’abitato si articola definitivamente in 2 zone: acropoli e città bassa.

La graduale trasformazione dell’assetto abitativo è probabilmente il risultato del contatto di questa civiltà con la cultura ellenica, in particolare con le città  della Magna Grecia, Taranto su tutte. I resti della produzione artigianale del tempo suggeriscono innovazioni anche in questo campo, mentre dalla documentazione archeologica si comprende come la comunità di Monte Sannace fosse stratificata socialmente, con il potere politico-economico concentrato nelle mani di ristretti gruppi di aristocratici.

L’età ellenistica è dunque il periodo di maggior espansione economica e demografica, dopo le prime fasi più oscure a causa delle lotte per l’indipendenza con le altre popolazioni indigene di Puglia.  

Tra IV e III secolo a.C. l’abitato si circonda di solide mura, che racchiudono parte bassa ed acropoli in un unico organismo urbano. L’acropoli diviene il centro della vita pubblica della città e si arricchisce, perciò, di nuovi edifici e residenze aristocratiche, nonché di tombe monumentali, arricchite da  affreschi policromi. La città bassa s’espande senza una pianificazione programmata, vengono a crearsi nuovi isolati attorno alle strade principali, le cui case hanno dimensioni e piante abbastanza varie.

L’acropoli è stata occupata fino al I secolo d.C., mentre l’abitato in pianura perde importanza già dal II a.C. Nel periodo romano l’insediamento di Monte Sannace perde la sua importanza: escluso dalle principali arterie stradali della regione, viene, progressivamente, abbandonato,  restando disabitato per secoli. 

La collina di Monte Sannace viene, in epoca contemporanea, interessata, come i dintorni, da  attività rurali che ne trasformano ulteriormente l’aspetto: si costruiscono muri a secco, specchie e trulli, l’area viene adibita a frutteto, uliveto, vigneto, di cui ancora oggi restano sparsi degli elementi. Anche attualmente parte dell’area del parco, situata attorno al centro visite e nella zona più a valle, è data in concessione ad un imprenditore agricolo e seminata a grano duro.

 

 

 

 

Parco di Monte Sannace
Foto di Mirella Campochiaro

Vista panoramica dell’acropoli.

Vista della città bassa.

 

Tombe monumentali sull’acropoli.

 

  

2. LA VEGETAZIONE NELLE AREE ARCHEOLOGICHE

 

2.1 Generalità.

 

L’importanza dello sviluppo della vegetazione nell’alterazione di murature  e differenti tipi di manufatti viene spesso trascurata, ma può essere rilevante, specie in rapporto a certi tipi di substrato ed alle condizioni climatiche dell’ambiente circostante. Basta considerare che la profondità e la distanza raggiunta dalle radici può essere impressionante e che la loro azione disgregante si esplica anche su substrati molto compatti; inoltre, all’azione meccanica esercitata dalla crescita delle parti ipogee, bisogna aggiungere l’azione chimica generata dalla produzione, a livello radicale,  di sostanze acide con un certo potere solubilizzante.

Infine l’alterazione può essere diversa a seconda che si tratti di reperti esposti all’aperto o confinati in ambienti ipogei e nel primo caso è spesso una vegetazione di tipo infestante e ruderale a determinare  tipologia ed entità dell’alterazione prodotta. Manufatti e soprattutto siti archeologici,  se non sottoposti a  pratiche sistematiche per il contenimento delle piante spontanee, tendono ad essere rapidamente colonizzate, o soffocate, da consociazioni vegetali, la cui complessità e qualità rappresenta una sintesi dei fattori climatici, edifici ed antropici.

Solitamente, negli ambienti antropizzati e su vecchie murature si insedia un tipo di vegetazione ruderale o sinantropica, solitamente calcifila, xerofila e spesso anche nitrofila o casmo-nitrofila, condizionata fortemente da fattori quali la porosità del substrato, l’umidità, contenuto in calcari, apporto di sostanze organiche, esposizione, inclinazione ecc…

 

2.2 Le piante infestanti e loro strategie biologiche.

 

E’ utile un preambolo che spieghi, dal punto di vista più strettamente biologico, i caratteri principali delle infestanti.

Se partiamo col dividere gli organismi vegetali in base alla strategia vitale, riconosciamo tre categorie di massima:

ü      competitori;

ü       stress-tolleranti;

ü      ruderali.

I primi vivono in  ambienti produttivi e non disturbati ed hanno sviluppato adattamenti che ottimizzano la cattura delle risorse disponibili; il fattore condizionante, in questo caso, è la competizione con gli altri individui.

Le stress-tolleranti possiedono adattamenti, spesso di tipo fisiologico, che ne consentono la sopravvivenza in ambienti scarsamente produttivi ed il fattore limitante è appunto la presenza di uno o più tipi di stress.

Le ruderali vivono, grazie ai loro adattamenti,  in ambienti produttivi, ma con elevato grado di disturbo; si accrescono con grande velocità, completando rapidamente il loro ciclo vitale e producendo una elevata quantità di semi. La fioritura si verifica in stadi assai precoci di sviluppo, la maturazione dei semi è molto veloce, tanto che non è raro trovare sia fiori che frutti contemporaneamente sulla stessa pianta.

Con il termine “pianta infestante si intende una pianta che non riveste alcuna funzione utile per l'uomo, e che anzi, nell'accezione originaria del termine, ne va a danneggiare le produzioni agricole. Il concetto può essere esteso alle piante che, crescendo in maniera incontrollata, invadono campi abbandonati e ambienti ruderali o che, nel caso specifico, danneggiano i manufatti  o semplicemente accentuano il problema delle allergie o fanno percepire come degradato il luogo ove crescono. Non esiste un vero e proprio elenco di piante infestanti, in quanto la definizione di “malerba” è puramente soggettiva: alcune piante coltivate possono divenire malerbe nel momento in cui cessa la loro utilità per l'uomo. Molte infestanti, dal punto di vista delle strategie biologiche appartengono alla categoria intermedia dei competitori-ruderali, hanno cicli di differente durata (annuali, bienni, perenni), ma hanno notevoli somiglianze negli altri aspetti. In particolare nelle specie competitori-ruderali annuali, la fioritura è preceduta da una fase relativamente lunga di crescita vegetativa; in generale, c’è un delicato bilancio tra fase iniziale di crescita vigorosa, caratteristica dei competitori, e la seguente fase riproduttiva, favorita dalle ruderale in senso stretto. Molte graminacee (Bromus sterilis, Hordeum murinum, Lolium multiflorum ecc) appartengono a questa categoria. Nelle competitori-ruderali bienni, il cui ciclo di estende  per due anni, nel primo anno viene formata una rosetta basale e si accumulano riserve nell’apparato radicale; nel secondo anno le riserve sono utilizzate per la produzione di fiori, specie su infiorescenze di notevoli dimensioni e su cui si forma un grosso numero di semi.  Molte ombrellifere e composite hanno questa strategia vitale (Cirsium vulgare, Angelica sylvestris, Arctium spp. ecc) (Speranza, 1990).

I competitori ruderale perenni, il cui ciclo vitale dura più anni, dominano quegli ambienti a grado di disturbo piuttosto contenuto e colonizzano dopo qualche anno i giardini abbandonati, gli incolti, ecc. Possono espandersi rapidamente con organi vegetativi quali rizomi, stoloni, colonizzando vaste superfici in breve tempo. Cirsium arvense, Achillea millefolium, Trifolium repens sono comuni esempi di questa categoria.   Possiamo aggiungere che i competitori-ruderali annuali si avvicinano maggiormente alle ruderali sensu strictu, le specie a ciclo bienne ed ancor più perenne si avvicinano progressivamente alla strategia dei competitori (Speranza, 1990).

Il comportamento di ogni  specie infestante è comunque il risultato di un processo di evoluzione e specializzazione che le consente di insediarsi negli ambienti dove è più o meno pressante l’azione di disturbo esercitata da altri agenti fisici e biologici o dalla presenza dell’uomo. Tale attitudine dipende da diversi fattori, riassumibili in tre punti:

ü      la capacità  della semenza di essere facilmente trasportata da agenti quali vento, acqua o   animali;  

ü      la grande longevità della stessa, conseguente alla  forte resistenza al disseccamento e dall'asfissia  in caso di interramento profondo, grazie all'impermeabilità all'acqua e all'aria del loro tegumento;

ü      la presenza di copiose banche-semi nel suolo, da 20 a 400 milioni per ettaro a una profondità  tra 10 e 15 cm; la flora di superficie sarebbe costituita dal 5 al 10% di questo stock.

Va specificato ancora che  molti   tipi di seme  sono particolarmente piccoli o dotati di pappi e strutture espanse, che consentono loro di essere lungamente trasportati dal vento, alla ricerca di microhabitat idonei alla crescita; altri hanno mucillagini o piccoli uncini per aderire al manto degli animali oppure hanno una resistenza tale da  attraversarne intatti l’apparato digerente; infine alcuni, come quelli delle famiglie delle Chenopodiaceae, sono in grado di resistere a lunghi periodi di sommersione.

Le infestanti  permangono lungamente nel sito colonizzato, perchè solo una parte dei tantissimi semi prodotti germinano l’anno successivo, mentre molti restano dormienti e pronti a germinare per periodi medio-lunghi. Le specie che formano queste banche-semi nel suolo sono caratterizzate da un certo polimorfismo nella germinazione: semi di uno stesso individuo possono rispondere più o meno prontamente a  stimoli di carattere termico, idrico o luminoso, dando luogo ad una germinazione sfalsata nel tempo. La  persistenza è favorita  anche dalla capacità di alcune infestanti di riprodursi per via agamica, tramite rizomi, bulbi, tuberi e altri organi come gemme particolari; questo tipo di riproduzione porta, d’altro canto, alla formazione di popolazioni geneticamente uniformi, che potrebbero essere  spazzate via da cambiamenti repentini delle condizioni ambientali Infine molte possiedono specializzazioni fisiologiche che gli consentono di vivere ed accrescersi in condizioni di stress idrico, di resistere ad attacchi di parassiti, carenze nutritive o eccessi di vario tipo.   

 

2.3 I mezzi per combatterle.

 

L’eliminazione delle infestanti, che presuppone sempre un’adeguata conoscenza delle specie da colpire, può essere realizzata con:

ü      metodi chimici; 

ü      metodi  fisici;

ü      metodi meccanici;

ü      metodi biologici.

I primi sono rappresentati da un gruppo di sostanze dette “erbicidi” o “diserbanti”, inizialmente utilizzati per salvaguardare le colture dalle infestanti e successivamente impiegate, con grande successo, nel settore extra-agricolo. Sono disponili una vasta gamma di sostanze erbicide, ma solo poche decine vengono stabilmente  adoperate, almeno in Italia, dove il diserbo chimico interessa, ormai, una vasta porzione dell’intera superficie. Anche in tutti gli altri paesi ad economia avanzata gli erbicidi sono in continuo aumento, perché in generale più efficaci e più economici degli altri mezzi, soprattutto a larga scala.  Gli erbicidi chimici sono sostanze in grado di uccidere le piante danneggiando una o più funzioni vitali; possono essere assorbiti dalle piante tramite le foglie (via stomatica o via cuticolare) o tramite le radici; quelli appartenenti alla prima categoria devono essere distribuiti quando le specie da colpire sono in vegetazione, quelli della seconda vanno invece distribuiti sul terreno dal quale verranno poi assorbiti.  La fitotossicità può esplicarsi sull'organo a diretto contatto con l'erbicida o sui diversi organi, grazie alla capacità che certi composti hanno di traslocarsi con il flusso xilematico e/o floematico. Una caratteristica importante degli erbicidi è la selettività: molti sono in grado di uccidere determinate specie e di risparmiarne altre desiderabili per fini agricoli o estetici; questo aspetto ha contribuito notevolmente alla loro diffusione in agricoltura.

Un’ altra classificazione divide gli erbicidi in composti  antigerminello, che impediscono la germinazione delle malerbe; di pre-emergenza, che colpiscono l'infestante allo stadio di plantula annullandone di fatto lo sviluppo; di post-emergenza, che eliminano l'infestante già sviluppata.

Adeguate conoscenze sulle proprietà  degli erbicidi, abbinate a dosaggi, modalità e tecniche di distribuzione adeguati, rendono, secondo diversi studiosi, gli erbicidi estremamente flessibili nel gestire la vegetazione, secondo le differenti esigenze. L’uso degli erbicidi ha cominciato ad essere applicato al contesto delle aree archeologico-monumentali pochi decenni fa, con buoni risultati. E’, però, conveniente adottare grande cautela, soprattutto riguardo al possibile inquinamento e la tossicità di questi composti e le eventuali ricadute sulla salute umana, considerando che si tratta di siti a forte frequentazione turistica. Nello specifico, bisogna anche considerare parametri addizionali quali possibili interferenze del prodotto o suoi residui sul substrato trattato ed eventuali effetti collaterali di natura estetica.   

I metodi meccanici consistono nel diserbo manuale con l’ausilio di opportuni strumenti. Per asportazioni totali, l’operazione deve essere effettuata con le dovute cautele, in quanto l’apparato radicale, rimasto ancorato al substrato, può offrire resistenza più o meno elevata; quando invece non è necessaria l’asportazione totale, ma è sufficiente un controllo della crescita delle ruderali, ad esempio dove non è presente pavimentazione, il taglio periodico può selezionare una vegetazione erbacea importante per la protezione del suolo dall’erosione, oltre che apprezzabile per il suo impatto estetico. La falciatura meccanica o manuale delle infestanti, rappresenta il mezzo fisico più utilizzato nelle aree archeologiche; essa impone costi ingenti e richiede frequenti interventi, perché molte malerbe resistono all’azione di disturbo. La falciatura, inoltre, è  utilizzabile su superfici non troppo vaste, non in vicinanza di manufatti particolarmente delicati ed infine non fornisce risultati accettabili per piante arbustive o perenni. 

Il controllo di tipo fisico viene eseguito con mezzi che impediscono la germinazione dei semi e lo sviluppo della pianta, quali: pacciamatura (copertura con detriti), pirodiserbo,  sommersione con acqua (serve ad eliminare le infestanti xerofile, energia elettromagnetica ecc…  In realtà tali sistemi sono difficilmente impiegabili nelle aree archeologiche, perché incompatibili con la necessità primaria di salvaguardia dei manufatti.

La lotta biologica è una tecnica che sfrutta i rapporti di antagonismo fra gli organismi viventi per contenere le popolazioni di quelli dannosi (www.wikipedia.it). In genere si applica in campo agro-alimentare, ma potenzialmente è applicabile in ogni contesto che richieda il controllo della popolazione di qualsiasi organismo, comprese le aree archeologiche, dove è frequente la presenza di una specie dominante, contro la quale potrebbe essere utilizzato con successo un insetto litofago. Risultati interessanti sembrerebbero fornire le tecniche di lotta biologica che utilizzano i funghi patogeni, con i quali preparare microerbicidi in grado di contenere lo sviluppo di una o più infestanti. Comunque, allo stato attuale delle conoscenze e mancando sperimentazioni in tal senso, la lotta biologica non fornisce risultati soddisfacenti nella gestione delle infestanti nelle aree archeologiche (Caneva et a., 1986). 

 

 

2.4 I diserbi nell’area archeologica di Monte Sannace.

 

 L’opera di controllo della flora spontanea  nel Parco Archeologico e Naturale è affidata ad una azienda privata. Scopo fondamentale degli interventi programmati da tale azienda è devitalizzare gli organi ipogei di tutte quelle piante che crescono a contatto e nelle immediate vicinanze dei manufatti, le quali esercitano sugli stessi un’azione di danneggiamento notevole; secondariamente essi servono a mantenere una perfetta visibilità dei monumenti, dunque una elevata fruibilità da parte dei visitatori, in tutti i periodi dell’anno.

Vengono privilegiati, a questo scopo, gli strumenti chimici di diserbo:  in particolare, il  glifosate, è  ritenuto l’unico principio attivo che assicuri da un lato un controllo efficace, dall’altro l’assenza di controindicazioni per l’ambiente circostante. Il glifosate è un sale organico derivato dalla fosfonazione dell’amminoacido glicina;  quando  è assorbito dagli organismi vegetali, attraverso le foglie o direttamente dal sistema linfatico,  provoca un inganno metabolico a livello della sintesi proteica ed induce una lenta devitalizzazione della pianta stessa. Questo prodotto, utilizzato con successo in agricoltura e nel controllo della vegetazione infestante di altre aree archeologiche tra cui quella di Pompei,  ha la caratteristica di essere selettivo per le piante e di non danneggiare gli altri sistemi biologici, come la fauna o l’uomo. Altro pregio di grande valore è che la parte dell’erbicida  dispersa nell’ambiente circostante le piante-bersaglio, è soggetta ad una rapida e totale biodegradazione, scomponendosi in sostanze quali acqua, anidride carbonica, fosforo ed azoto.

Il glifosate, grazie alle sue caratteristiche eco-tossicologiche,  è lo strumento più valido quando  si opera in un ecosistema notevole, come quello di Monte Sannace.

Quanto alla formulazione erbicida utilizzata, l’azienda ricorre ad un tipo specifico per ambienti civili, composto dal principio attivo con sola acqua,  senza altri elementi (coadiuvanti, tensioattivi, bagnanti ed altre sostanze pericolose) che, normalmente, sono adottati in agricoltura.

Per quanto riguarda le attrezzature tecniche per la distribuzione dell’erbicida, considerando la tipologia, la dislocazione dei monumenti su cui operare e la necessità di indirizzare l’applicazione dell’erbicida sulle sole piante bersaglio,  gli operatori impiegano pompe zaino elettriche a bassa pressione di esercizio e, per una localizzazione ancora più precisa, si servono di campane schermanti da applicare in prossimità dell’ugello.

Quanto alla programmazione va tenuto conto che, come in tutte le aree archeologiche, il diserbo è una pratica di gestione ordinaria e la continuità degli interventi nel tempo è l’unico modo per impedire  lo sviluppo della vegetazione sui monumenti. Operativamente il diserbo dei monumenti è tarato in base allo stato di sviluppo della flora nelle diverse stagioni, tenendo conto che il glifosate è tanto più veloce ed  efficace nel devitalizzare le piante bersaglio, quanto più le stesse si trovano in fase di attiva crescita, ovvero ai primi stadi ontogenetici.

Le piante indesiderate vengono così eliminate man mano si sviluppano e ciò minimizza il tempo delle operazioni ed i disagi per i visitatori. 

Sono quindi programmati interventi:

ü      tra ottobre e novembre per il controllo della flora annuale microterma che si sviluppa tra autunno ed inverno;

ü      tra metà marzo e fine aprile per agire sulle specie annuali a  ciclo primaverile- estivo;

ü      due volte l’anno per il controllo della flora macroterma annuale e perenne. Il primo intervento  ricade tra fine giugno  ed inizio di luglio per coprire la prima e più massiccia ondata vegetativa; un secondo intervento è utile per fronteggiare una nuova, parziale ondata di crescita, che si verifica in occasione di sporadiche piogge estive o  al sopraggiungere di condizioni climatiche più temperate, da metà agosto in poi. Tale intervento può, pertanto, ricadere tra agosto e settembre ed è preceduto da un monitoraggio periodico trisettimanale per la verifica dello stato di crescita della vegetazione.

 

 

 

 

 

3. MATERIALI E METODI

 

 

 3.1 LINEAMENTI GEOLOGICI E PEDOLOGICI.

 

Il Parco Archeologico e Naturale di Monte Sannace si trova in agro di Gioia del Colle, compreso nell’altopiano murgiano, il quale occupa una grossa parte della Puglia centrale.

E’ possibile distinguere l’altopiano murgiano, a seconda di caratteri altitudinali e geografici, in  Alta Murgia e Murge Basse. La Murgia, convenzionalmente definita come l’area con quote superiori ai 300 m l.m., ha forma di quadrilatero esteso in direzione O-NO, E-SE e si estende dalla valle dell’Ofanto fino alla “Soglia Messapica”, corrispondente all’allineamento Taranto-Mesagne.

I rilievi maggiori, vale a dire Torre Disperata e Monte Caccia, alti quasi 700 m l.m., si trovano nell’estremità nord-occidentale, mentre verso sud-est le quote scendono gradualmente dai 450 m dei rilievi della Valle D’Itria, fino ai 108 m l.m. di S. Vito dei Normanni; dunque le Murge Basse o Murge di sud-est rappresentano la  naturale prosecuzione dell’Alta Murgia verso il mare, cui degradano dolcemente.

Dal punto di vista morfologico le murge basse, nella loro parte centrale, sono costituite da una serie di ripiani collegati da scarpate più o meno elevate. I vari ripiani hanno andamento parallelo alla costa e  sono pianeggianti o lievemente ondulati e l’intera area presenta linee di drenaggio ad andamento nord ovest-sud est o sud-ovest  nord est, sino alla confluenza con l’Adriatico. Queste linee di drenaggio, percorse dall’acqua solo durante le precipitazioni più intense, talvolta hanno dato origine, durante migliaia di anni, ad incisioni profonde, con fondovalle generalmente di limitata estensione.

Le Murge Basse sono caratterizzate da un paesaggio fortemente antropizzato, in quanto sono quasi totalmente coltivate e, in termini di superficie investita, la cultura più diffusa è sicuramente l’ulivo, mentre, soprattutto negli ultimi anni, si è assistito ad un incremento degli impianti di uva da tavola e di fruttiferi (ciliegio).

In questo contesto, il territorio di Gioia del Colle si trova in una “insellatura” a confine delle due Murge e per questo rappresenta la naturale via di comunicazione tra Mare Adriatico e Mar Ionio, tra coste ed entroterra.

Le caratteristiche geologiche del territorio in questione sono state studiate mediante la consultazione della bibliografia specialistica, compresa la Carta Geologica d’Italia (fogli 189 e 190); per i lineamenti pedologici è stata consultata la Carta Pedologica della Provincia di Bari ( Cassi F. et al.,  1999)

Le rocce che costituiscono il territorio di Gioia del Colle fanno quasi interamente parte della serie calcarea mesozoica denominata “Calcari delle Murge”, la stessa che affiora con grandi estensioni in tutta l’area murgiana. Il gruppo dei “Calcari delle Murge” è formata da un potente complesso sedimentario, detritico e ben stratificato, divisibile in due unità litostratigrafiche fondamentali:

·        Calcare di Bari (Cretaceo superiore);

·        Calcare di Altamura (Cretaceo inferiore).

Il primo costituisce l’ossatura delle Murge ed emerge solo nel nord est della provincia di Bari; si tratta di una potente (circa 2000 m) serie di banchi calcarei detritici assai fini, di colore biancastro, probabilmente depostosi in ambiente di piattaforma costiera o laguna, per cui ricco di fossili marini   (microforaminiferi, lamellibranchi, gasteropodi e rudiste).

Il secondo, che poggia sul primo, affiora nella maggior parte  del territorio di Gioia del Colle e delle Murge ed ha uno spessore che si aggira sui 900 m. Sono calcari detritici organogeni, a grana più o meno fine, deposti in un ambiente  di mare sottile con periodi lagunari e rapidi episodi di emersione.  I fossili prevalenti sono rudiste,  microforaminiferi, resti di alghe e rari ostracodi.

La serie calcarea per tutto il terziario fu soggetta a prolungata erosione subaerea  e solo nel quaternario fu interessata da una estesa ingressione marina, che ha determinato la deposizione di calcareniti più o meno argillose, denominate “Tufi delle Murge”.  Di questi ne restano, ancora oggi, alcune placche  di interesse pratico, per la facile coltivazione e perché sede di modeste falde freatiche; alcune di esse, inoltre, hanno costituito i luoghi prescelti per gli insediamenti umani, come nel caso dell’abitato di  Gioia del Colle. 

Sul calcare di Altamura poggia, con contatto trasgressivo, la Calcarenite di Gravina: è una formazione di sabbie calcaree  a grana fine, di colore bianco-giallastro, con stratificazioni rare ed irregolari; presenta abbondanti fossili di molluschi, brachiopodi ed echinidi. Essa  è datata pliocene-pleistocene inferiore,  ha uno spessore estremamente variabile, da pochi metri a qualche decina (50-60 al massimo), ed è stata largamente utilizzata come materiale da costruzione, grazie alla sua lavorabilità.

Fanno seguito, in concordanza sopra la Calcarenite di Gravina, le Argille Azzurre Subappennine (Pleistocene inferiore), appartenenti al ciclo marino della fossa bradanica e anch’esse di origine marina e le sabbie di Monte Marano (pleistocene inferiore-medio), che chiudono la serie. Questo ultimo livello, spesso al massimo 60 metri, è costituito da sabbie calcareo-quarzose gialle  ed affiora, tra le altre zone, in corrispondenza dell’abitato di Gioia del Colle.

Non mancano, soprattutto nelle zone di Canale Frassineto e nei solchi erosivi,  depositi recenti ciottolosi e terrosi di origine  alluvionale, trasportati in tempi più o meno recenti da antichi fiumi e laghi o da torrenti effimeri.

Occorre precisare che nell’area del Parco Archeologico e Naturale di Monte Sannace affiorano  esclusivamente litotipi appartenenti alla formazione del calcare di Altamura.

Riguardo i suoli delle Murge basse, in via del tutto generica, possiamo dire che, nonostante la vastità dell’area ed una certa variabilità della morfologia, essi risultano, nel complesso, abbastanza omogenei. Presentano una profondità media, buon drenaggio e un contenuto in sostanza organica medio-alto. Tali caratteristiche, associate ad una scarsa pietrosità superficiale, ne rendono possibile la coltivazione con ottimi risultati produttivi.

Nell’area di Monte Sannace, secondo la Carta Pedologica della Provincia di Bari, sono presenti suoli ascrivibili  alla categoria dei Lithic Ruptic-Xerochreptic Haploxeralfs (classificazione Usda, 1994),  con caratteristiche leggermente differenti tra la parte alta e le zone pianeggianti ai piedi del colle.

Il pedotipo della parte alta non è molto dissimile da quello diffuso in tutta l’area delle Murge Alte: si tratta di suoli con profondità prevalentemente inferiore a 50 cm, originatisi  da un substrato calcareo profondamente fessurato  e con massiccia solubilizzazione dei carbonati ad opera delle acque meteoriche. Nelle zone in cui le fessure sono più ampie e profonde, si possono  formare delle tasche di alterazione, riempite da materiale; in queste condizioni è stato possibile lo sviluppo di suoli maggiormente evoluti, con un orizzonte argillico in profondità,  dove si depositano minerali argillosi. Benché sia discontinuo in senso orizzontale, la presenza di un orizzonte argillico è indicativo di una pedogenesi lunga, almeno qualche migliaio di anni. Anche il clima ha una sua influenza: in località caratterizzate da percolazione di acqua nel profilo durante tutto l'anno, non si osservano suoli con un tale orizzonte, ma questo si sviluppa in suoli che restano, almeno per qualche tempo, asciutti.

(http://it.wikipedia.org/wiki/USDA_Soil_Taxonomy_-_Orizzonti_diagnostici)

La tessitura nell’orizzonte più superficiale (0-20 cm) è da argillosa ad argillo-limosa, lo scheletro scarso e  di piccole dimensioni ed il contenuto di materia organica da medio ad alto. L’orizzonte argillico sottostante, come già detto discontinuo in senso orizzontale, può essere più o meno complesso e, localmente, suoli profondi si affiancano a suoli molto sottili. 

I suoli più profondi (60-100 cm), in linee generali,  sono riscontrabili nelle aree morfologicamente ribassate, in cui è avvenuto, nel tempo, un accumulo di materiale sia alluvionale che colluviale (deposito continentale di cui parte è stata trasportata dalle acque), proveniente dalle aree circostanti. In questi casi è presente un orizzonte superficiale di colore scuro e ricco di materia organica ed uno argillico profondo, in cui il contenuto di argilla può arrivare anche al 60%.  Questa situazione si verifica ad esempio nelle lame e nelle depressioni carsiche, tanto nelle Murge Alte che in quelle basse.

I suoli che caratterizzano la parte pianeggiante e più bassa di Monte Sannace,  anch’essi impostati su calcari,  presentano, al di sotto dello strato superficiale (0-20cm), un orizzonte cambico. Esso deriva da processi di alterazione fisica e/o trasformazioni chimiche, che sono state alla base della pedogenesi, almeno inizialmente. Le alterazioni fisiche, in generale, possono originarsi da cicli gelo/disgelo, inumidimento/disseccamento, proliferazioni radicali, attività animali; quelle alterazioni di tipo chimico possono derivare da idrolisi di minerali primari, dissoluzione di sali e successiva  rideposizione, riduzione e rimozione di ferro. (http://it.wikipedia.org/wiki/USDA_Soil_Taxonomy_-_Orizzonti_diagnostici).
 L’orizzonte cambico si individua in corrispondenza di irregolarità e fessurazioni del substrato calcareo, mentre manca dove il suolo è più superficiale. Questo tipo si suolo si rinviene, solitamente, nelle unità paesaggistiche a morfologia più movimentata dove, spesse volte, si hanno affioramenti rocciosi ed una pietrosità superficiale notevole.

                                                                                                                            

 

3.2  LINEAMENTI BIOCLIMATICI

 

Il clima viene definito come l'insieme delle condizioni atmosferiche (temperatura, umidità, pressione, venti...) medie, ottenute da rilevazioni omogenee dei dati per lunghi periodi di tempo, che si registrano in una regione geografica, in grado di determinare le caratteristiche della componente biologica (flora e fauna) vivente nello stesso luogo.

Tra i dati climatici più significativi e di più facile reperimento figurano le medie mensili di temperatura e precipitazione, che combinati in appositi algoritmi, permettono di calcolare indici climatici e bioclimatici, espressioni sintetiche delle principali caratteristiche del clima e delle fitocenosi di una data area geografica.

Per caratterizzare dal punto di vista bioclimatico l’area di Monte Sannace sono stati adoperati i dati di precipitazioni e temperature della stazione di rilevamento meteorologico di Gioia del Colle. Questi dati sono stati tratti dalla Banca Dati Climatica della Regione Puglia (progetto POP-Puglia ACLA2) che comprende serie storiche complete di dati termo-pluviometrici relative al periodo 1950-1992 (Caliandro et al., 2002). Sulla scorta di questi dati sono stati elaborati gli indici bioclimatici di Rivas-Martinez (1999), l’indice di aridità di De Martonne (1926) ed il quoziente puviotermico di Emberger (1955).

 

3.2.1 Indici bioclimatici di Rivas-Martinez.

 

Rivas-Martinez ha messo a punto un sistema di classificazione globale di tipo bioclimatico,  che, quindi, metta in relazione  i parametri del clima (temperature e precipitazioni)  con la distribuzione degli esseri viventi sulla terra, specialmente i vegetali. Tale sistema  comprende  5 grosse categorie climatiche definite “macrobioclimi” che sono:  tropicale, mediterraneo, temperato, boreale e polare; ciascun macrobioclima si divide, a sua volta, in unità tassonomiche di rango inferiore, definiti  “bioclimi” ed individuate per un insieme di caratteristiche concernenti le comunità vegetali predominanti, per un totale di  27 unità. Infine, ciascun bioclima è ulteriormente definito sulla scorta delle variazioni nei ritmi stagionali di temperatura e precipitazioni attraverso l’utilizzo di indici termotipici ed ombrotipici.

Il macrobioclima mediterraneo, a cui appartiene una parte consistente del territorio pugliese, si rinviene a latitudini comprese tra quelle tropicali e quelle temperate (da 23º a 51º di latitudine nord e sud),  in cui si realizzano due seguenti condizioni:

ü      presenza di una stagione secca con durata non inferiore a 2 mesi consecutivi;

ü      quantità di  precipitazioni estive inferiore al doppio delle temperature degli stessi mesi ( P < 2T ).

In funzione, poi, della quantità annua e stagionale di precipitazioni,  la vegetazione potenziale subirà notevoli differenziazioni andando, per citare due esempi estremi,  dai boschi sempreverdi o decidui, corrispondenti al “bioclima pluviostagionale” , tipico di  quelle zone  il cui clima è influenzato dalla vicinanza agli  oceani, fino alla totale assenza di vegetazione legnosa per il “bioclima iperdesertico”, di cui esistono estese superfici nelle parti interne di quasi tutti i continenti.

Attraverso l’utilizzo di una serie di indici, calcolati in base ai parametri termici e pluviometrici e basati su semplici formule matematiche, è possibile classificare il bioclima dell’area in esame e quindi desumere le principali caratteristiche, in termini di  fisionomia generale della vegetazione potenziale del luogo.

L’indice di continentalità (Ic) (Rivas-Martinez, 2004) esprime l’ampiezza con cui variano le temperature nell’arco dell’anno, dunque il grado di continentalità, ed è quindi una misura dell’escursione termica annua. Esso si calcola mediante la formula:

 

Ic = Tmax – Tmin

 

Dove:

·        Tmax = temperatura media del mese più caldo dell’anno

·        Tmin = temperatura media del mese più freddo dell’anno, espressi in gradi Celsius.

 In base ai valori di questo indice di continentalità Rivas-Martinez ha  definito alcuni tipi bioclimatici con relativi Sottotipi:

 

Tipos

Subtipos

Ic

1. Hiperoceánico

1.1a. Ultrahiperoceánico acusado

0-2.0

 

1.1b. Ultrahiperoceánico atenuado

2.0-4.0

(0-11)

1.2a. Euhiperoceánico acusado

4.0-6.0

 

1.2b. Euhiperoceánico atenuado

6.0-8.0

 

1.3a. Subhiperoceánico acusado

8.0-10.0

 

1.3b. Subhiperoceánico atenuado

10.0-11.0

2. Oceánico

2.1a. Semihiperoceánico acusado

11.0-13.0

 

2.1a. Semihiperoceánico atenuado

13.0-14.0

(11-21)

2.2a. Euoceánico acusado

14.0-16.0

 

2.2b. Euoceánico atenuado

16.0-17.0

 

2.3a. Semicontinental atenuado

17.0-19.0

 

2.3b. Semicontinental acusado

19.0-21.0

3. Continental

3.1a. Subcontinental atenuado

21.0-24.0

 

3.1b. Subcontinental acusado

24.0-28.0

(21-66)

3.2a. Eucontinental atenuado

28.0-37.0

 

3.2b. Eucontinental acusado

37.0-46.0

 

3.3a. Hipercontinental atenuado

46.0-56.0

 

3.2b. Hipercontinental acusado

56.0-66.0

 

Tabella 1: classificazione dei tipi e dei sottotipi cimatici di Rivas-martinez, secondo i valori dell’indice di continentalità (Ic) (www.globalbioclimatics.org).

 

L’indice ombrotermico annuale (Io) è dato da:

 

Io = (Pp/Tp)10

 

Dove:

  • Pp =  somma delle precipitazioni, espressa in mm, dei mesi con temperatura media  maggiore di zero gradi centigradi;
  • Tp =  somma delle temperature medie degli stessi mesi, espressa in decimi di gradi centigradi.

Questo indice permette di individuare fasce ed orizzonti ombrotipici, nell’ambito dei diversi macrobioclimi; per i macrobioclimi Temperato e Mediterraneo la suddivisione tra le fasce ombrotipiche utilizza valori identici di Io (tab. 2). Per poter stabilire se il macrobioclimi è di tipo Mediterraneo o Temperato si ricorre al calcolo degli indici ombrotermici estivi compensati: Ios2, Ios3 e Ios4.

Ios2 è pari a:

 

Ios2 = (Pps2/Tps2) 10

 

Dove:

·        Pps2 = somma delle precipitazioni, in mm, dei due mesi più caldi del trimestre estivo;

·        Tps2 = somma delle temperature medie dei tre mesi estivi, espressi in decimi di gradi centigradi.

Come già detto, il macrobioclima Mediterraneo è caratterizzato da un periodo di aridità estiva, in cui le precipitazioni sono minori od uguali al doppio della temperature (P< 2T); quindi un  territorio con clima non di tipo Mediterraneo avrà indice ombrotermico del bimestre estivo superiore a 2 (Ios2>2). Conseguentemente, se dal calcolo Ios2 risulterà maggiore di 2, il bioclima sarà sicuramente di tipo temperato, mentre se Ios2 sarà minore di 2 non è possibile affermare con sicurezza l’appartenenza del bioclima al tipo Mediterraneo e bisognerà procedere col calcolo degli altri indici ombrotermici estivi compensati. Il fine ultimo di queste valutazioni  è verificare che la disponibilità di acqua nel suolo, relativa ai mesi precedenti all’estate, non sia sufficiente a compensare l’effettiva aridità dei mesi estivi. Tramite il calcolo dell’Ios3, Indice Ombrotermico del trimestre estivo si valuta se il deficit idrico del bimestre luglio-agosto  è compensato dalle precipitazione del mese di giugno:

 

Ios3 = (Pps3/Tps3) 10

 

Dove:

·        Pps3 = somma delle precipitazioni medie del trimestre estivo in mm

·        Tps3 = la somma delle temperature medie degli stessi mesi in decimi di gradi centigradi.

 

Ancora una volta, se Ios3 è maggiore di 2, si può affermare che il macrobioclima è temperato, se esso è minore o uguale a 2, per le motivazioni precedenti, non è possibile avere la sicurezza che invece sia Mediterraneo, quindi si deve procedere al calcolo dell’Ios4.

La formula per il calcolo dell’Ios4, analoga alle precedenti, è:

 

 

Ios4 = (Pps4/Tps4) 10

 

Dove:

  • Pps4 = somma delle precipitazioni medie del trimestre estivo più quelle del mese immediatamente precedente (maggio), espresse in mm;
  • Tps4 = somma delle temperature medie dei tre mesi estivi più quella di maggio, in decimi di gradi centigradi.

Se Ios4 è maggiore di 2, l’area considerata ha bioclima Temperato,  se lo stesso indice ha valore minore o uguale a 2, il bioclima è con certezza di tipo Mediterraneo.

Ogni macrobioclima è suddiviso in differenti bioclimi in  base ai valori dell’indice ombrotermico annuale (Io) e dell’indice di continentalità (Ic).

Il macrobioclima Mediterraneo è suddiviso nei seguenti bioclimi:

ü      M. oceanico pluvistagionale se Ic < 21 ed Io >2;

ü      M. continentale pluvistagionale se Ic >21 ed Io >2.0;

ü      M. continentale xerico se Ic >21 e   1.0< Io <2.0;

ü      M. oceanico xerico se Ic < 21 e 1.0< Io <2.0;

ü      M. oceanico desertico se Ic < 21 e 0.2 < Io < 1.0;

ü      M. continentale desertico se Ic >21 e 0.2 < Io < 1.0;

ü      M. iperdesertico oceanico se Ic < 21 e Io < 0.2;

ü      M. iperdesertico continentale se Ic > 21 e Io < 0.2.

 

 

OMBROTIPO

Fasce ombrotipiche

orizzonti ombrotipici

valori Io

ultraiperarido

ultraiperarido

< 0.1

iperarido

iperarido inferiore

0.1-0.2

iperarido superiore

0.2-0.3

arido

arido inferiore

0.3-0.6

arido superiore

0.6-1.0

semiarido

semiarido inferiore

1.0-1.5

semiarido superiore

1.5-2.0

secco

secco inferiore

2.0-2.8

secco superiore

2.8-3.6

subumido

subumido inferiore

3.6-4.8

subumido superiore

4.8-6.0

umido

umido inferiore

6.0-9.0

umido superiore

9.0-12.0

iperumido

iperumido superiore

12.0-18.0

iperumido inferiore

18.0-24.0

ultraiperumido

ultraiperumido

>24.0

 

Tabella 2: suddivisione delle diverse fasce ombrotipiche e degli orizzonti ombrotipici in base ai valori dell’indice ombrotermico annuale Io. (Rivas-Martinez, 2004)

 

 

Procedendo verso le unità di rango minore, ogni bioclima è suddivisibile in differenti piani bioclimatici termotipici che corrispondono a zone con peculiari formazioni vegetali, che si succedono le une alle altre sia in senso altitudinale che latitudinale.

Il termotipo è individuato dall’Indice di termicità  ( It ), espresso dalla formula:

 

It = (T + m + M) 10

 

Dove:

·        M = temperatura media delle massime del mese più freddo dell’anno;

·        m  = temperatura media delle minime dello stesso mese;

·        T = temperatura media annua in gradi centigradi.

Tale indice pesa l’intensità del freddo, uno dei fattori limitanti fondamentali per crescita delle specie vegetali.

In base a questo indice,  limitatamente al macrobioclima mediterraneo, si possono individuare 6 termotipi, corrispondenti ad altrettanti piani altidudinali:

ü      Inframediterraneo se It  >470;

ü      Termomeditteraneo se 470< It <360;

ü      Mesomediterraneo se 360<  It <200;

ü      Supramediterrano se 200< It <70;

ü      Oromediterrano se 70 <It< -30;

ü      Criomediterrano It <-30.

 

Se  It (indice di termicità)  risulta maggiore di 18 o minore di 9 si calcola l’indice di termincità compensato (Itc), dato da:

Itc = It ± C

Dove C è il fattore di compensazione.

Nel caso in cui l’indice di continentalità semplice (Ic) abbia valori compresi tra 8 e 18, il valore di Itc è considerato uguale a quello dell’It, altrimenti  l’indice di termicità compensato (Itc) si calcola tramite una tabella che permette di derivare C, fattore di compensazione, in base ai valori di It e fi. 

 

Ic

fi

Ci

Ci highest
values

18<Ic<=21

f1=5

Ci=C1; C1=f1(Ic-18)

C1=15

21<Ic<=28

f2=15

Ci=C1+C2; C1=f1(21-18)=15; C2=f2(Ic-21)

C2=105

28<Ic<=46

f3=25

Ci=C1+C2+C3; C1=15; C2=f2(28-21)=105; C3=f3(Ic-28)

C3=450

46<Ic<=65

f4=30

Ci=C1+C2+C3+C4;C1=15;C2=105;C3=f3(46-28)=425;C4=f4(Ic- 46)

C4=570

 

Tabella 3: Tabella per derivare l’Itc (www.globalbiocliamtics.org)

 

 

3.2.2 Indice di aridità di De Martonne.

 

L’indice di aridità di De Martonne (1926) si calcola mediante la formula:

 

IA = P / T + 10

dove:

  • P è la piovosità annuale in mm;
  • T è la temperatura media annua in °C.

 

In base al valore di questo indice il clima viene considerato:

ü      Arido estremo se  0 < i < 5;

ü      Arido se 5 < i < 15;

ü      Semiarido se 15 < i < 20;

ü      Subumido se 20 < i < 30;

ü      Umido se 30 < i < 60;

ü      Perumido se  i >60.

 

L’indice di De Martonne può anche essere calcolato anche relativamente ai singoli mesi ed in questo caso la formula è:

ia= 10 P / T + 10

 

 

3.2.3 Quoziente pluviotermico di Emberger.

 

Il quoziente pluviometrico di Emberger (1955) si calcola con la formula:

 

Q = 2000 P /M2 – m2

 

Dove:

  • P =  precipitazioni medie annue in mm;
  • M = media delle temperature massime del mese più caldo espresse in gradi Kelvin;
  • m = media delle temperature minime del mese più freddo, espresse sempre in gradi Kelvin.

 

I valori di questo indice sono tanto più bassi quanto più il clima è arido e tanto più alti quanto più il clima diventa umido. Nella regione mediterranea, il quoziente pluviometrico di Emberger  varia tra 50 e 250 e permette di individuare le  seguenti categorie bioclimatiche:

ü       20 < Q < 30 à clima arido;

ü      30 < Q < 50  à clima semiarido;

ü      50 < Q < 90  à clima subumido;

ü      Q > 90          à clima umido.

 

Considerando  i  valori di m, media delle minime del mese più freddo, possiamo avere bioclima:

ü      Caldi se m > 7 °C;

ü       Freschi se 0°C < m < 7°C;

ü      Freddi se 0°C  < m < -5°C ;

ü      Molto freddi con m < -5 °C.

 

Ponendo in un sistema di assi cartesiani  il valore di m sulle ascisse ed il quoziente pluviometrico di Emberger sulle ordinate si può ottenere il climatogramma di Nahal (1981). 

 

 

3.3 LA FLORA DEL PARCO ARCHEOLOGICO E NATURALE DI MONTE SANNACE

 

Al fine di caratterizzare la componente  vegetale del Parco Archeologico di Monte Sannace, è stata effettuata un’analisi floristica completa della superficie del Parco, che misura circa 45 ettari, di cui un terzo circa è coltivato a cereali.

Il censimento floristico, basato su raccolta e  determinazione tassonomica delle entità della Flora vascolare presente in tutto il perimetro del Parco, fatta eccezione per le aree coltivate, è stato svolto  nel periodo maggio 07- aprile 08. Il censimento floristico è stato effettuato annotando tutte le specie riconosciute durante le escursioni, con l’aggiunta dell’indicazione di massima sull’ambiente di rinvenimento; per le specie ignote, invece, sono stati raccolti 2 campioni, nel momento in cui esse presentavano i caratteri diagnostici sufficienti per una corretta identificazione  (fiori in primis, frutti quando possibile e necessario, radici, ecc…). Questi campioni, raccolti quando possibile integralmente oppure, per specie voluminose, solo nelle parti diagnostiche, sono stati ripuliti dal terreno,  distesi tra fogli di giornale e racchiusi in un erbario da campo rudimentale, realizzato con  due fogli di compensato, tenuti insieme da cinte di cuoio.  L’utilizzo dell’erbario da campo, per il trasporto dei campioni dal luogo di raccolta al laboratorio,  è stato preferito ai classici sacchetti di cellophane,  perché consente una migliore conservazione di tutti quei caratteri (petali, sepali, stami ecc) importanti per l’identificazione e soggetti al raggrinzimento o alla caduta una volta che la pianta è stata raccolta.

Dopo il campionamento segue la fase di conservazione; i campioni raccolti nel corso della stessa giornata di campionamenti sono stati posti tra fogli di giornale asciutti e puliti,  poi tra due fogli di cartoncino robusto, chiusi con una cordicella che permettesse di trattenere i fogli internamente con una leggera pressione.   Ad ogni pacchetto così preparato è stato aggiunto un codice alfanumerico identificativo che riassumesse data, località e nome del rilevatore. Gli stessi  pacchetti, allestiti di volta in volta, sono stati posti in essiccatoio ventilato ad una temperatura di 36 °C, per una settimana, per favorire l’essiccazione delle piante, evitare la formazione di muffe e garantirne, conseguentemente, una conservazione a più lungo termine.

Dal punto di vista temporale, i campionamenti sono cominciati a maggio 2007 e, nella frequenza, hanno seguito i ritmi stagionali:

ü      durante la stagione primaverile, la più ricca di fioriture, sono stati effettuati a scadenze settimanali;

ü      per metà luglio e settembre  e tutto agosto e per  l’inverno 2008 (dicembre, gennaio e metà novembre e febbraio) c’è stata una pausa, in concomitanza  col riposo vegetativo delle specie;

ü      durante l’autunno  i campionamenti sono stati effettuati a scadenze quindicinali.     

 

I campioni, una volta essiccati, sono stati osservati tramite stereoscopio ed identificati tassonomicamente; per la determinazione della famiglia, genere e specie sono stati utilizzati Flora d’Italia (Pignatti, 1982), Nuova Flora Analitica d’Italia ( Fiori, 1923-1929) e Flora Europea (Tunin et al., 1968, 1976).

I dati relativi a ciascuna giornata di campionamento sono stati riuniti in un unico elenco floristico, in cui, per ciascuna specie, sono stati raccolti una serie di dati rilevanti per questa ricerca, vale a dire:

ü      periodo di fioritura (Pignatti, 1982);

ü      forma biologica  (Raunkiaer, 1905);

ü      corotipo ( Pignatti, 1982);

ü      ambiente di rinvenimento;

ü      indice di pericolosità (Signorini, 1995)

ü      indici bioecologici (Pignatti- Ellenberg, 2005).

Quanto al secondo punto,  a ciascuna specie è stata  associata la corrispondente forma biologica secondo la codifica di Raunkiaer, che  individua le forme biologiche in base alla posizione che occupano le gemme durante la stagione avversa. Esse, infatti, subiscono stress più o meno forti nei diversi ambienti in funzione della loro posizione e la più o meno pronta ripresa vegetativa, al termine della stagione avversa, dipende proprio dalla possibilità o meno che esse vengano preservate. Le  categorie biologiche di Raunkiaer sono:

ü      T = terofite: piante annuali che superano la stagione avversa allo stato di seme;

ü      I = idrofite: piante perenni acquatiche con gemme sommerse;

ü      G = geofite: piante perenni acquatiche con gemme sotterranee racchiuse in bulbi o rizomi;

ü      H = emicriptofite: piante perenni con gemme poste a livello del terreno;

ü      Ch = camefite: piante perenni, alla base legnose, con gemme poste a 2-3 dm di altezza dal suolo;

ü      P ed NP = fanerofite e nanofanerofite: piante perenni legnose con gemme poste ad una certa distanza dal suolo.

La diversa distribuzione di queste forme biologiche in un determinato territorio è fortemente correlato coi parametri climatici e permette in una qualche misura di derivare le condizioni ecologiche del territorio d’indagine . La ripartizione delle diverse forme biologiche in percentuale costituisce lo spettro biologico, detto “normale”, perché applicato semplicemente all’elenco floristico.

Riguardo il terzo punto, le specie vegetali sono state  raggruppate anche in base all’appartenenza a gruppi corologici,  valutando quindi il loro areale di distribuzione. Ogni specie vegetale, infatti, è distribuita all’interno di una certa area, detta areale geografico, che può avere estensione più o meno ampia: alcune specie hanno areali molto ristretti (es. esclusivamente su un’isola) altre possono essere diffuse in tutto il mondo. Anche all’interno del proprio areale, la distribuzione della specie può essere del tutto discontinua o rarefatta, specialmente quando la sua presenza è legata ad ambienti particolari. L’areale, inoltre,  pùo essere di varia estensione e forma: unitario se è continuo;  disgiunto se è frazionato in  areali parziali  con uguali dimensioni o composto da  un areale principale e disgiunzioni (se queste ultime sono di minori dimensioni rispetto al principale).

I fattori che determinano la forma e l’estensione degli areali sono:

ü      GEOGRAFICI: valgono per tutte le specie (mari, fiumi, catene montuose ecc.);

ü        INTRINSECI: propri della specie: 1. fattori ecologici attuali (edafici, climatici, ecc.)                    

                                                                           2.   fattori biologici;

                                                                           3.   storici.

Le specie della flora italiana sono raggruppate nei seguenti principali gruppi corologici:

ü      Mediterraneo: il loro areale gravita attorno al bacino del Mediterraneo, si distinguono, più precisamente in:

1. stenomediterranee. Sono specie strettamente legate al clima mediterraneo; il loro areale coincide, grosso modo, con quello dell’ulivo;

2. eurimediterranee. Hanno una maggiore tolleranza e possono spingersi più o meno all’interno del continente europeo, limitatamente alle zone più calde. Il loro areale di distribuzione coincide, approssimativamente, con quello della vite;

3.  mediterraneo-montane. Occupano, strettamente, le montagne presenti nel bacino del mediterraneo e non scendono a quote di pianura.

ü      Euro-asiatico: sono diffuse in tutte le zone temperate dell’Eurasia, a quote differenti con alcune sottodivisioni:

1.      paleotemperate. Sono specie  eurasiatiche in senso lato e compaiono anche nel Nordafrica;

2.      eurasiatiche in senso stretto, dall’Europa al Giappone;

3.      sudeuropeo-sudsiberiano. Popolano le zone calde dell’Europa e la fascia arida della Siberia meridionale; quando gravitano attorno al Mar Nero vengono dette pontiche.

4.      Europeo-caucasico: Europa e Caucaso;

5.      Europee s.l.. Si collocano in Europa centrale e sono legate ad un clima temperato.

ü      Atlantico: specie con areale centrato sulle coste atlantiche d’Europa. Si distinguono:

1.      subatlantiche: collocate tra l’Europa occidentale e le zone orientali, limitatamente ai climi di tipo suboceanico;

2.      mediterrerraneo-atlantiche: coste atlantiche e mediterranee;

3.      anfiatlantiche: presenti sui due lati dell’Atlantico, Europa e Nordamerica.

ü      Orofite-Sud europee: sono diffuse sui sistemi montuosi sud-europei di origine terziaria, abbondanti soprattutto in Italia settentrionale.

ü      Specie boreali o nordiche con diversi sottogruppi, di cui i principali:

1.      circumboreale: zone fredde e temperato fredde dell’Europa, Asia e Nordamerica;

2.      eurosiberiano:  zone fredde e temperato fredde dell’Eurasia;

ü      Mediterraneo-Turanico. Popolano le zone desertiche e subdesertiche  dal bacino mediterraneo all’Asia centrale;

ü      Subtropicale e paleotropicale.  Provengono dai paesi della fascia tropicale fino a temperato-calda.

ü      Cosmopolita: l’areale è esteso su gran parte del globo terrestre, riguarda specie facilmente adattabili a qualsiasi condizione ecologica entro certi limiti.

ü      Endemico: areale limitato ad un territorio ristretto e ben definito. A seconda della loro origine distinguiamo paleoendemismi e neoendemismi; i primi sono endemismi originatisi da specie antiche, spesso tassonomicamente isolate, il cui areale un tempo di estendeva in zone molto più ampie; i secondi sono quelli che riguardano specie più recenti, appartenenti a generi polimorfi.

Lo studio degli areali permette di chiarire meglio l’origine e l’evoluzione di una specie, le affinità con le altre specie, nonché di delinearne alcune caratteristiche ecologiche.

Ogni specie dell’elenco floristico è stata attribuita ad un corotipo, dopo di che è stato elaborato uno spettro corologico, che esprime le diverse percentuali  con cui i gruppi corologici si presentano.  Spettri biologici e corologici sono stati espressi graficamente con grafici a torta, in cui l’ampiezza di ciascun settore circolare è proporzionale alla percentuale presentata dalle diverse forme biologiche  o dai gruppi corologici.  

Spettro biologico e corologici forniscono utili informazioni anche  di carattere ecologico.

 

 

3.4 INDICI BIOECOLOGICI DI PIGNATTI-ELLEMBERG

 

 

Il metodo di bioindicazione proposto da Ellenberg (1974, riveduto ed ampliato nel 1979 e 1992) è basato sull’idea che la presenza di una specie in un determinato sito è una prova che il luogo è conciliabile con le sue esigenze ecologiche e perciò dalla sua presenza si possono ricavare informazioni sulle caratteristiche ecologiche del sito stesso. Estendendo il concetto, tutta la flora o la vegetazione di un ambiente  può essere interpretata per trarre informazioni sulle caratteristiche ecologiche delle stesso (Pignatti, 1980).

Il metodo, basato su criteri rigorosi, è facilmente applicabile: il comportamento di ogni specie, rispetto a sei fattori ecologici, è sintetizzato mediante un valore di bioindicazione, il quale traduce in numero l’indicazione che ciascuna specie fornisce sull’incidenza di quel determinato fattore nel  sito d’indagine. La valutazione può dirsi  soggettiva, ma tiene conto di dati quali distribuzione geografica e topografica della specie, misure sperimentali in campo, paragoni con altre specie, che sono invece oggettivi.

I valori di bioindicazione  si possono applicare a specie, flore, comunità, complessi di vegetazione, e possono essere facilmente trattati con metodi statistici e rappresentati graficamente, tramite un ecogramma (Pignatti, Ellenberg e Pietrosanti, 1996),  grafico che consente un rapido confronto visivo tra differenti ecosistemi, facilmente interpretabile rispetto a tabelle con centinaia di numeri. Sicuramente nell’interpretazione dei questi valori numerici occorre cautela, in  quanto la bioindicazione si riferisce alle condizioni di crescita quando la specie è soggetta alla concorrenza di altre e non corrisponde, quindi,  al suo reale optimum eco-fisiologico.

Originariamente il metodo venne tarato sulla  flora della Germania, che comprende soltanto meno della metà delle specie presenti in Italia; inoltre, considerando le condizioni ecologiche certamente differenti dell’ambiente mediterraneo, esso era inadatto alla flora italiana. 

La versione adattata alla flora d’Italia fu elaborata nel 1993-94 da Celesti, Pignatti e Wikus,  ed è stata ampiamente sperimentata finora sulla vegetazione mediterranea. In Ellenberg (1974) la scala usata comprende solitamente 9 gradi (o al massimo 12) e deriva da quella di 5 gradi, con l’interposizione di valori intermedi tra l’uno e l’altro grado (cioè negli intervalli 1-2, 2-3, 3-4, 4-5). Per il fattore idrico (U), Ellenberg ha espanso la scala con i valori 10 – 11 – 12, riservati alle piante che vivono immerse in acqua,  mentre per la salinità ha utilizzato  soltanto i valori 1-3.

Nell’operazione di adattamento del metodo alla flora italiana sono stati mantenuti i 6 fattori ecologici fondamentali,  scelti perché costituiscono risorse essenziali per la vita delle piante:

  • 3 fattori fisici riguardano il clima:

                                                  1.  L –  radiazione luminosa (1-9);

                                                  2.   T –  calore (1-9);

                                                  3.  C –  continentalità del clima (1-9);

  • 3 fattori riguardano la chimica del suolo:

                                                 4. U – umidità o disponibilità di acqua (1-12);

                                                 5.  R –  reazione del suolo (1-9);

                                                  6.  N – nutrienti (1-9).

 

ELLEMBERG considerava come facoltativi la salinità (S) e l’adattamento ai metalli pesanti: la prima viene conservata, mentre i metalli pesanti sono trascurati, data la loro sostanziale irrilevanza nell’ambito della  flora italiana. Rispetto all’ originale, la scala dei fattori L e T viene allargata fino a 12, per includere tutte le specie della flora mediterranea, adattate a condizioni più calde e soleggiate di quelle tedesche; inoltre va tenuto conto che i valori di continentalità sono molto spesso nella media (4-6) e questo è più che comprensibile considerando come il nostro paese sia circondato su tre lati dal mare. Sono state usate due abbreviazioni:

·        ×  specie indifferenti (ampia distribuzione in ambienti diversi);

·        0 comportamento non precisato (sostituisce il simbolo “? ” utilizzato originariamente da Ellemberg).

Alla fine dell’operazione di riadattamento venne realizzata una tabella per raccogliere i dati e, per ogni specie, essa riporta numero d’ordine e codice a  7 cifre da Pignatti (1982),  denominazione scientifica, forma biologica, corotipo e valore dei 7 fattori ecologici fondamentali.

L’utilizzazione di questo metodo di biondicazione ha aperto, anche per l’Italia, grandi possibilità di ricerca nei campi dell’ecologia della vegetazione, nell’ecologia del territorio e del paesaggio. Le possibili applicazioni  riguardano la valutazione delle condizioni ecologiche di un sito e del suo popolamento, confronti e paragoni tra diverse associazioni, analisi di gradienti, successioni nel tempo, verifica di cambiamenti climatici nel tempo, selezione di specie per interventi di rinaturazione, ecc

Vanno tenuti sempre presenti i limiti del metodo: con oltre 36.000 valori è chiaro che ogni dato rappresenta un’approssimazione  ed il metodo quindi acquista maggiore affidabilità quando viene applicato su insiemi costituiti da un gran numero di dati, così da ottenere medie significative.

                                                                                            

3.5  L’INDICE DI PERICOLOSITA’ DELLE SPECIE ED IL CONTROLLO DELLE INFESTANTI

 

L’Indice di Pericolosità delle specie (I.P.) è un indice numerico correlato all’impatto della specie nei confronti dei manufatti architettonici e rappresenta un primo approccio nel coniugare la tutela delle opere antropiche con  l’interesse scientifico-ecologico delle comunità vegetali presenti contestualmente (Signorini, 1995).

In questa sede si  riporta il metodo utilizzato da Signorini nel 1995 nell’area archeologica di Fiesole (FI), il quale si basa sulla quantificazione numerica di alcune caratteristiche biologiche, scelte perché correlate alla aggressività delle specie nei confronti  dei manufatti architettonici.

Si propone la valutazione di quattro parametri:

  1. categoria biologica, determinata dalla durata del ciclo biologico e dal portamento della specie;
  2. dimensione;
  3. invasività e vigore, in riferimento alla capacità di propagazione vegetativa ed al tipo di crescita;
  4. tipo di apparato radicale.

Per quanto riguarda il primo punto si distingue tra piante annue, bienni o perenni e tra un portamento erbaceo, arbustivo, lianoso ed arboreo; è importante valutare questi aspetti caso per caso, dato che la maggior parte delle specie possono comportarsi in modo diverso, a seconda delle condizioni ambientali.

La dimensione, approssimativamente, aumenta parallelamente alla durata del ciclo vitale e con il passaggio da erbaceo ad arbustivo e ad arboreo.

Il terzo parametro valuta la tendenza della pianta a propagarsi per via vegetativa, colonizzando nuove superfici; tale tendenza, nelle erbacee, deriva dal portamento reptante e dalla presenza di rizomi estesi. Nelle piante legnose viene valutata la capacità di emettere polloni, ovvero nuovi germogli che si  originano dalla base della pianta o dalle radici,  talvolta in seguito  al taglio del fusto. La capacità pollonifera delle piante legnose va valutata con attenzione, essendo  particolarmente pericolosa per manufatti e resti archeologici, difatti consente alla piante di espandersi e  sopravvivere ad un eventuale taglio, rendendole difficilmente eliminabili. Per “vigore” si intende lo sviluppo vegetativo complessivo della pianta, comprensivo dello sviluppo in superficie, ma anche di quello in altezza e profondità.

Quanto all’ultimo punto, l’apparato radicale, esso può essere fondamentalmente di due tipi:

ü      a fittone, con una radice principale che predomina sulle altre quanto a capacità di penetrare il suolo;

ü      fascicolato, con numerose radici uguali nella capacità di penetrazione e che si mantengono tutte più o meno superficiali. 

In linee generali, si può dire gli apparati a fittone sono più pericolosi rispetto ai non fittonanti, ma non sempre nelle piante legnose; talvolta, infatti, un apparato fittonante poco ramificato o sviluppato in profondità, può risultare meno pericoloso di uno superficiale, che venga a contatto  coi manufatti da salvaguardare. Per questo motivo, nelle categorie “piante legnose” è più opportuno distinguere tra apparati radicali poco, mediamente e molto invadenti.

Si riporta di seguito una descrizione schematica delle principali tipologie vegetali, assieme ad alcune considerazioni sulla loro pericolosità verso i manufatti e sulla reazione agli interventi di diserbo manuale.

  1. Piante annue. (es. Arabidopsis thaliana) Esaurendo il proprio ciclo vitale in pochi mesi, raggiungono dimensioni contenute e non sono, in genere, pericolose per i manufatti lapidei.  Tra di esse le reptanti (es. Stellaria media) sono sensibilmente più invasive, potendo occupare vaste aree in poco tempo, mentre altre annue, con sviluppo particolarmente vigoroso, (es. Conyza canadensis) possono raggiungere dimensioni ragguardevoli in altezza/profondità  causando anche danni rilevanti. Il diserbo manuale porta la morte delle annuali,  però è importante che venga effettuato prima della formazione dei semi. 
  2. Piante bienni. (es. Centaurea deusta) si propagano prevalentemente per seme, hanno ciclo vitale di durata limitata e crescita contenuta, quindi non sono particolarmente pericolose. Le loro radici, spesso a fittone ingrossato e penetrante, possono causare danni importanti. Possono sfuggire al diserbo durante il primo anno, quando sono presenti sotto forma si rosetta basale, ma in genere muoiono se sottoposte a trattamenti idoneu.
  3. Piante erbacee perenni.  Alcune erbacee perenni hanno sviluppo gracile: la crescita epigea è abbastanza contenuta, talvolta  presentano stoloni o rizomi allungati, comunque poco invasivi. Il danno, in questo caso, è leggermente maggiore rispetto alle precedenti categorie; se non vengono estirpate permangono come infestanti per diversi anni, venendo talvolta favorite dal taglio, soprattutto quelle dotate di fusti sotterranei e rizomi.

Le erbacee perenni a sviluppo vigoroso (es. Cynodon dactylon) tendono ad espandersi rapidamente sia sopra che sotto il suolo con fusti reputanti, rizomi ecc…si riproducono per seme e spesso per via vegetativa, sono invasive e si espandono velocemente in superficie.  Deve essere valutato pure il vigore complessivo della piante, per cui appartengono a questa categoria anche piante non invasive, ma con sviluppo particolarmente vigoroso, la cui pericolosità verrebbe sottostimata valutando solo l’invasività. La maggior parte delle specie appartenenti a questa categoria sfuggono ai tagli ed ai diserbi manuali, in virtù della presenza di organi sotterranei di propagazione e, in qualche caso, vengono addirittura stimolate ad accrescersi.

  1. Piante arbustive. Questa categoria comprende le suffrutici e gli arbusti in senso stretto. Le piante suffruticose sono piccoli arbusti, con una piccola parte legnosa ed una parte erbacea di accrescimento annuale (es. Calamintha nepeta). Si riproducono generalmente per seme, hanno maggiori dimensioni rispetto alle erbacee, ma se non possiedono estesi apparati radicali fittonanti non sono particolarmente pericolose. Rispondono al taglio sopravvivendo e ricacciando inizialmente, ma, col passar del tempo,  regrediscono.

Gli arbusti s.s. sono piante legnose, ramificate a livello del terreno, spesso con notevoli dimensioni; possono avere capacità pollonifere (es. Rubus ulmifolius)  e propagarsi con grande velocità ed invasività. Queste caratteristiche aspetti fanno di essi un pericolo importante per i manufatti. Reagiscono al diserbo manuale inizialmente ricacciando con vigore, poi perdendo gradualmente vitalità.

  1. Liane. Sono piante perenni legnose che si arrampicano a sostegni, alberi, manufatti, soffocandoli. Possono avere o meno capacità pollonifera (es. Clematis vitalba). Si riproducono per via vegetativa o per seme, in genere sono piante invadenti e pericolose per i manufatti eretti, che possono crollare sotto il loro peso. Quanto al diserbo manuale valgono le stesse considerazioni fatte per gli arbusti.
  2. Alberi. Piante perenni, ramificate ad una certa altezza dal terreno, hanno grande taglia ed apparato radicale esteso. Alcune specie (Olea europea) hanno la capacità di emettere polloni se tagliati alla base del tronco, altre  li emettono dalle radici (Ailanthus altissima).  Sono, sicuramente, le piante che causano i maggiori danni, specialmente con l’apparato radicale, che può  raggiungere dimensioni maggiori della parte epigea, specie se hanno capacità pollonifere. Quanto alla risposta al taglio, esso ha effetto solo sulle specie non pollonifere, mentre le pollonifere vengono indebolite solo dopo lungo tempo.

Prendendo in considerazione i parametri illustrati, ciascuna specie viene individuata da tre indici numerici che corrispondo alla categoria biologica, all’invasività ed al tipo di apparato radicale.  Ciascun paramento aumenta al crescere della pericolosità, quindi l’indice associato a ciascuna specie sarà dato dalla somma di questi tre parametri. Tale indice, rielaborato in un secondo studio di Signorini  sul controllo della vegetazione sul muraglione medievale che cinge la città vecchia di Termoli (1996), varia da un minimo di 0 (piante annue non reptanti con apparato non fittonante) ad un massimo di 10, (piante arboree con polloni ed apparato radicale invadente) e  cresce in concerto con:

ü      la durata della vita della pianta e le sue dimensioni definitive;

ü      la dimensione e la pericolosità dell’apparato radicale;

ü      l’invadenza e l’aggressività della pianta;

ü      la difficoltà nell’eliminarla col taglio.

Quindi un indice di pericolosità uguale, relativo a differenti specie, non ha lo stesso significato, se non in termini generali di grado di pericolosità; schematizzando al massimo si può dire che:

ü      I. P. compreso da 0 a 3 indica specie poco pericolose, trascurabili durante le operazioni di diserbo;

ü      I. P. compreso tra 4 a 6 indica specie mediamente pericolose e va valutato caso per caso la opportunità di agire su di esse tramite diserbo;

ü      I. P. da 7 in poi indica specie molto pericolose, in linea di massima da eliminare.

Per il controllo della vegetazione infestante nei siti archeologici si potrebbero valutare, oltre all’Indice di Pericolosità, vari altri aspetti di carattere pratico, tra cui:

1.      abbondanza della specie nell’area in esame e suo valore estetico;

2.      costi economici per manodopera, attrezzature e sostanze diserbanti;

3.      possibilità di danni meccanici o chimici durante le operazioni di diserbo;

4.      rischio di danni sanitari ed ambientali, soprattutto nel caso di sostanze diserbanti non facilmente prevedibili.

Quanto al primo punto Signorini (1996) propone di valutare l’abbondanza della specie secondo tale scala:

ü      ° : specie rara o scarsamente abbondante;

ü      °° : specie mediamente abbondante oppure localizzata;

ü      °°° :  specie molto abbondante.

Analogamente il valore estetico viene valutato con una scala a tre gradi, considerando l’aspetto della specie in tutto il corso dell’anno:

ü      * : piante di aspetto poco attraente con fiori incospicui. A questa categoria appartengono molte specie comunemente identificate come “infestanti”;

ü      ** : piante mediamente attraenti. Possono rientrare in questa categoria piante attraenti solo per alcuni periodi dell’anno, ad esempio durante la fioritura, oppure piante gradevoli, ma effimere, con fogliame non gradevole o secche per gran parte dell’anno.

ü      *** : piante decisamente gradevoli per tutto il corso dell’anno, per i caratteri di fiori e foglie. In questa categoria si annoverano tutte quelle piante impiegate comunemente e commercialmente come “ornamentali”.

La valutazione dei parametri di abbondanza, e ancor più di valore estetico, sono sicuramente soggettivi, pertanto hanno valore comunque limitato e vanno considerati nei casi in cui sì è indecisi sull’eventualità o meno di intervenire su specie, quando questa ha pericolosità intermedia.

Tenendo conto del contesto particolare in cui questa ricerca si è svolta, ovvero un Parco Naturale, non solo Archeologico,  è stato scelto di considerare un ulteriore  parametro,  il “valore naturalistico”.  Per determinarlo si è tenuto conto di 2 aspetti:

a.       presenza/assenza nelle Liste Rosse Nazionali e Regionali;

b.      “Rarità” espressa da Pignatti nella Flora d’Italia (1982).

La scala utilizzata consta di 3 gradi:

ü      £ : scarso valore naturalistico, specie assente dalle Liste Rosse ed indicata come  “comune” da Pignatti;

ü      ££ : valore naturalistico intermedio; specie assente dalle Liste Rosse, ma indicata da Pignatti come “Rara” in Puglia e nel meridione d’Italia o non segnalata nella nostra regione;

ü      £££ : alto valore naturalistico;  specie presente nelle Liste Rosse.

Quanto agli altri aspetti da valutare nella attuazione di ogni intervento, in linee del tutto generali,  si dovrebbe limitare al massimo ogni  possibile  aspetto negativo; gli interventi devono, dunque, essere:

ü      limitati  ai casi necessari;

ü      tempestivi e ripetuti;

ü      eseguiti con le modalità ed i prodotti più opportuni. 

Tramite il calcolo dell’indice di pericolosità si può pianificare ed indirizzare al meglio le azioni di diserbo, che saranno rivolte principalmente, se non esclusivamente, verso quelle piante ad indice più elevato; la presenza di sole specie poco pericolose (fino a 3) può rendere superfluo il diserbo, specie quando le stesse hanno una funzione estetica o sono importanti dal punto di vista naturalistico-scientifico. Le specie su cui agire tempestivamente ed in maniera studiata sono quelle molto pericolose, con indice superiore a 7, solitamente le legnose.

 

 

 

 

4. RISULTATI

 

 

 

4.1 LINEAMENTI GEOLOGICI E PEDOLOGICI

 

Lo studio dei lineamenti geologici e pedologici è stato effettuato esclusivamente tramite l’analisi bibliografica, pertanto si rimanda al paragrafo 3.1 di “materiali e metodi”.

 

 

 

4.2 LINEAMENTI BIOCLIMATICI

 

L’indagine bioclimatica relativa al territorio di Monte Sannace è stata  condotta con la metodologia precedentemente descritta (paragrafo 3.2),  utilizzando le medie mensili di temperatura e precipitazione della sola stazione di rilevamento meteorologico di Gioia del Colle, considerando che essa dista circa 3 km dall’area in oggetto.

La temperatura media annua è pari a  15, 3 °C, i mesi più freddi sono gennaio e febbraio con temperature medie rispettivamente di 7,1 °C e 7,7 °C, mentre quelli più caldi risultano luglio ed agosto con  temperature medie annue rispettivamente di 24,7°C e 24,6°C. Dall’analisi dei dati si nota che i mesi più caldi della temperatura media annuale vanno da maggio ad ottobre, mentre i salti termici maggiori sono quelli che si verificano tra aprile e maggio (4,6°C) ed analogamente tra ottobre e novembre (5°C). Questo salto termico ingente testimonia che il passaggio dai mesi primaverili a quelli estivi e da quelli estivi a quelli autunnali avviene piuttosto bruscamente.

E’ opportuno anche considerare il valore dell’escursione termica media mensile, risultante dalla differenza tra la media della massima e la media della minima del mese considerato: essa assume valori attorno agli 11°C nei mesi estivi, per scendere a 6-7°C nei mesi invernali.

La media delle temperature massime mensili supera i 30°C nei mesi di luglio ed agosto, mentre la media delle minime si dispone attorno ai 4°C, non scendendo al di sotto dei 0°C  neppure nei mesi più freddi dell’anno, se non occasionalmente.

Per quanto riguarda il regime pluviometrico di Gioia del Colle, esso è di tipo mediterraneo: le precipitazioni medie annue si assestano sui  593,4 mm e le piogge si distribuiscono prevalentemente nel periodo autunno-inverno; il mese più piovoso è novembre (76,5 mm), seguito da ottobre (63,1 mm), mentre i mesi più secchi sono luglio (21,4 mm) ed agosto (28,7).

 

 

 

 

 

gennaio

febbraio

marzo

aprile

maggio

giugno

luglio

T max

10,3

11,2

13,9

17,6

22,9

27,3

30,3

T min

3,9

4,1

5,9

8,4

12,4

16,3

19

T media

7,1

7,7

9,8

13

17,6

21,8

24,7

P medie

59,6

57,3

60,7

42,2

42,7

34,2

21,4

 

 

agosto

settembre

ottobre

novembre

dicembre

TOT

T max

30,2

26,

20,3

15,15

11,64

 

T min

19

16,1

11,8

8,22

5,24

 

T media

24,6

21,1

16,1

11,7

8,4

14,53

P medie

28,7

44,6

63,1

76,5

62,5

318,1

 

Tabella 6: specchietto riassuntivo delle condizioni termo-pluviometriche della stazione di Gioia del Colle.

 

L’indice di aridità di De Martonne è risultato pari a  23,45, per cui il macroclima può essere classificato di tipo subumido, atto ad ospitare una vegetazione tipo “macchia mediterranea”.  L’indice di aridità di De Martonne, calcolato relativamente a ciascun mese dell’anno ha messo in risalto che:

ü      in nessun mese dell’anno si verificano condizioni estreme di aridità o piovosità;

ü      i mesi da maggio a settembre si collocano nella tipologia “arido”;

ü      i mesi autunnali ed invernali (da novembre a marzo) sono caratterizzati da valori dell’indice più elevati, tali da collocarli nel tipo “umido”;

ü      aprile ed ottobre possiedono un indice di aridità calcolato intermedio, tali da collocarli rispettivamente nel tipo “ semiarido” e “subumido”.

 

Da questi risultati, inoltre, emerge che i mesi favorevoli per l’attività vegetativa dei vegetali nella stazione di Monte Sannace sarebbero, secondo questo indice, quelli compresi tra ottobre e marzo. Questo risultato, come anche quello ottenuto con l’applicazione dell’Indice annuale, mostra che questo tipo di indicatore mal si adatta a descrivere la realtà floristica e vegetazionale dell’area indagata (si veda capitolo relativo alla flora)

 

Il quoziente pluviotermico di Emberger, invece, ha fornito un valore di 77,86, evidenziando un bioclima di tipo mediterraneo subumido e, dalla correlazione di Q con il valore della media delle minime del mese più freddo,  temperato (climogramma secondo Nahal, figura 6).

 

Climogramma secondo Nahal con evidenziata la  collocazione di      Monte  Sannace.

 

Le caratteristiche bioclimatiche della zona di Monte Sannace sono state analizzate anche attraverso il calcolo degli indici bioclimatici di Rivas-Martinez. Per poter definire se il macrobioclima è di  tipo Mediterraneo o Temperato  si è fatto riferimento dapprima all’indice ombrotermico del bimestre estivo (luglio-agosto), Ios2, e poiché esso è risultato inferiore a 2 si sono considerati anche gli altri indici ombrotermici  estivi compensati (Ios3 e Ios4). Essendo infine Ios4 inferiore a 2 si è potuto stabilire  che il macrobioclima è di tipo Mediterraneo. Il valore di Ic, Indice di Continentalità, è risultato pari a 17,54, consentendo di inquadrare il bioclima nel tipo Oceanico, sottotipo Semicontinentale attenuato (vedi tab. 1, paragrafo 3.2.1)

L’indice Ombrotermico (Io) risultato pari a 3,23 colloca il clima di Monte Sannace nella Fascia ombrotipica Secca, orizzonte Superiore (vedi tab.2, par. 3.2.1) .

Sulla base dell’indice di termicità (It), pari a 295,80 il termotipo è Mesomediterraneo.

Nell’ambito del macrobioclima Mediterraneo, il bioclima individuato sulla scorta degli indici Io e Ic ( Ic < 21 e Io > 2.0 ) è oceanico pluviostagionale.

Riassumendo, infine, la stazione di Monte Sannace presenta un macrobioclima Mediterraneo, con un bioclima oceanico a piogge stagionali a tendenza continentale (Ic > 17) a termotipo mesomediterraneo ed ombrotipo secco.

 

 

 

4.3 LA FLORA DEL PARCO ARCHEOLOGICO E NATURALE DI MONTE SANNACE

 

4.3.1  Analisi floristica.

 

Nel corso di questo studio, nel territorio del Parco Archeologico e Naturale di Monte Sannace, sono state rinvenute 195 entità, raccolte in un elenco floristico, approntato utilizzando la nomenclatura aggiornata tramite la Checklist della Flora d’ Italia ( Conti et al., 2005), e riportato in allegato (Allegato A).

Le 195 entità sono distribuite in 53 famiglie della Flora vascolare; la famiglia più rappresentata è quella delle Asteraceae con 28 entità, seguono le Fabaceae con 16 e le Poaceae con 12, mentre ben 27 famiglie sono rappresentate da un’unica entità (figura 7).

Lo spettro biologico normale ( figura 8) è ricavato dalla totalità delle specie che costituiscono la flora di Monte Sannace ed esprime, in percentuale, le varie forme biologiche presenti in questo territorio; esse rispecchieranno le caratteristiche ambientali e, non meno importante, il grado di azione antropica a cui è, o è stata, soggetta la zona studiata.

Nel nostro caso, lo spettro biologico rivela la forte dominanza delle terofite con il 49%; ciò è imputabile alla forte antropizzazione del territorio, al suo utilizzo in tempi storici come area a pascolo o coltivata, alla attuale  incidenza dei diserbi stagionali, almeno per quelle zone attorno alle aree archeologiche;  i tipi di vegetazione in cui esse si esprimono sono gli incolti, i pratelli terofitici e la vegetazione sinantropico-ruderale. Una buona percentuale, pari al 24% è costituita da emicriptofite, specie erbacee bienni o perenni, che in generale tendono a dominare nelle praterie perenni, un tipo di vegetazione secondaria ormai stabilizzata e adattata a climi più freschi, rispetto a quelli mediterranei. Seguono le geofite  e le fanerofite con l’11%; le prime sono abbastanza ben rappresentate sia nelle fitocenosi annuali a terofite, sia nelle praterie perenni, mentre le seconde rappresentano il residuo di un bosco che doveva essere, un tempo, ben più ricco ed esteso, anche in questa zona, come nel resto della Puglia. Basse sono le percentuali di nanofanerofite  e camefite, rispettivamente al 3% e 2%.

Distribuzione per famiglie delle specie di Monte Sannace.

 

 Spettro biologico della Flora di Monte Sannace.

 

Spettro colorogico delle specie di Monte Sannace.

 

 

Le specie Steno-mediterranee di Monte Sannace nei dettagli.

 

I corotipi servono ad analizzare la flora di un territorio in termini di distribuzione, fornendo un quadro sintetico e caratteristico, che è  rappresentato dallo spettro corologico, un diagramma a torta (o un istogramma) che indica la percentuale di specie per ciascun corotipo (figura 9).

In ciascun territorio la flora è articolata e complessa e le specie appartengono a più corotipi.

Nell’area di Monte Sannace, quanto a distribuzione corologica, c’è, come atteso, una assoluta dominanza di specie che gravitano più o meno strettamente attorno al bacino del Mediterraneo: eurimediterranee  e stenomediterranee s.l. arrivano, globalmente, al 60%, con una sensibile dominanza delle prime (32%) sulle seconde (28%).  La dominanza delle eurimediterranee sulle stenomediterranee riflette le caratteristiche climatiche dell’area quanto ad umidità ambientale (si veda capitolo 4.2  sul clima).  

Quanto alle stenomediterranee s.l., in questa categoria sono state inglobate le specie distribuite in differenti regioni geografiche del Mediterraneo e non necessariamente attorno all’intero bacino, come le E-mediterranee, le S-mediterranee montane, ecc; per questo motivo è stato ritenuto opportuno distinguere, più nei dettagli, la provenienza delle Steno-mediterranee. Dal diagramma a torta per le specie stenomediterranee s.l. (figura 10) si evince che la stragrande maggioranza (74%) di esse  hanno corotipo  stenomediterranee s.s. perché presenti, più o meno uniformemente, attorno a tutto il bacino; una piccola parte, pari all’8%, hanno baricentro orientale (NE-mediterranee, E-mediterranee e E-mediterranee montane), fatto già ampiamente accertato per la flora pugliese, percentuali ancor minori possiedono le specie a baricentro strettamente occidentale (4%)  strettamente settentrionale (4%) e, a scalare, tutte le altre.  

Tornando allo spettro corologico globale, una discreta percentuale è raggiunta dalle specie a grande distribuzione, ovvero le paleotemperate, le euro-asiatiche, rispettivamente con l’11% ed l’9 % e le cosmopolite  con l’8%, indice, queste ultime, di elevata antropizzazione. La discreta presenza di queste entità ad ampia distribuzione è normalmente legata ad ambienti sinantropici e ruderali. Le mediterraneo-turaniane  e le Circumboreali giungono al 3% ciascuna; seguono, con minori percentuali, le  Mediterraneo-Montane, le Orofite Sud-europee, le Subatlantiche e Subtropicali, più attinenti ad altri climi ed aree geografiche. Le Endemiche giungono ad una percentuale del 2%, corrispondente a sole 3 entità su 195 totali;  esse sono:

ü      Crepis corymbosa Ten., asteracea più propriamente definibile subendemica, presente oltre che  nell’Italia meridionale, anche in alcune isole ioniche quali Corfù e Cefalonia (Pignatti, 1982);

ü      Crepis bursifolia L., endemica della Sicilia e ritrovata in alcune località tirreniche peninsulari, con areale probabilmente in espansione.

ü      Arum apulum (Carano) D.C. Boyce, entità endemica della Puglia centrale ed estremamente localizzata in alcune località delle Murge di sud-est.

 

Nelle Liste Rosse  Nazionali e Regionali, che raccolgono le entità floristiche  meritevoli di tutela, a livello rispettivamente nazionale e regionale, sono annoverate 2 specie presenti anche a Monte Sannace:

ü      Arum apulum (Carano) D.C. Boyce, segnalata nella Lista Rossa Nazionale  e Regionali con lo status di CR, specie a forte rischio estinzione;

ü      Gagea foliosa ( J. & C. Presl) Schult. & Schult. F., segnalata nella Liste Rosse Regionali come VU, ovvero specie vulnerabile per la regione Puglia.

 

Nell’area studio sono state rinvenute 2 entità non segnalate da Pignatti nella Flora d’Italia (1982) per la regione Puglia; esse sono:

ü      Amaranthus blitoides S. Watson, specie ruderale segnalata solo per l’Italia centrale, di provenienza nordamericana.

ü      Silene dioica (L.)  Clairv., segnalata comunque in tutte le regioni limitrofe alla Puglia.

 

E’ stata consultata anche la  Direttiva 92/43/CEE, meglio nota come “Direttiva Habitat” , in modo particolare negli allegati I e II, che riportano rispettivamente i tipi di habitat naturali  e l’elenco delle specie animali e vegetali di interesse comunitari. Nell’elenco degli habitat di interesse comunitario, ovvero quelli rappresentativi della biodiversità del territorio comunitario e perciò meritevoli di tutela, ma più diffusi e meno a rischio degli habitat prioritari, figurano anche i querceti di fragno (Quercus trojana Webb.), rappresentanti da alcuni lembi,  all’interno parco di Monte Sannace. 

 

4.3.2        Note floristiche, tassonomiche ed ecologiche su alcune specie caratteristiche del Parco Archeologico e Naturale di  Monte Sannace.

 

Arum apulum (Carano) D.C. Boyce .

E’ una specie endemica della Puglia centrale, correlata tassonomicamente alla specie balcanica Arum nigrum Schott.

Nel corso del presente studio, tale specie è stata rinvenuta in diversi individui, prevalentemente nella parte alta del Parco di Monte Sannace,  associato o meno al più abbondante Arum italicum Miller, confinato in luoghi ombrosi e con suolo abbastanza  ricco. Si segnala anche la presenza di ibridi tra le due specie.

Fu scoperta da Carano nel 1934, mentre erborizzava proprio nel territorio di Monte Sannace, che ne rappresenta, pertanto,  il locus classicus.  Inizialmente lo stesso Carano la identificò come varietà della specie A. nigrum Schott, successivamente fu Bedalov (1982) a riconoscerla come entità distinta. Differisce, infatti,  dall’affine A. nigrum  per alcuni importanti caratteri diagnostici, quali:

a.       forma e colore della spata;

b.      forma dello spadice;

c.       numero e la serie dei fiori sterili;

d.      morfologia del polline;

e.       numero cromosomico;

f.        distribuzione geografica (Bedalov et al. 1991).

In questa sede è riportata una sintetica descrizione morfologica (Carano, 1934; Bianco et alii, 1994).  Il tubero, di varia grandezza, è solitamente discoide, con un diametro massimo di 7 cm ed un altezza di 2 cm;  il picciolo fogliare,  lungo 20-45 cm,  è di colore verde intenso superiormente e verde- violetto nell’estremità inferiore;  presenta,  alla base, 2-3 (4) squame guainanti  triangolari, fibrose, di dimensioni crescenti dall’interno all’esterna, lunghe da 4-5 a 14-15 cm e larghe 1-2 (3) cm.

La lamina fogliare, carnosa,  è di colore verde, priva di macchie,  lunga circa un terzo del picciolo, solitamente mucronata all’apice; ha forma triangolare e  raggiunge  la massima larghezza nel terzo superiore; i lobi terminali, piccoli in proporzione alla lamina, sono solitamente ottusi ed appressati al picciolo  e si  ricoprono col margine interno, arrotondato.

Il peduncolo dell’infiorescenza, verde-violaceo, è più corto del picciolo fogliare. La spata, ovato- lanceolata, può raggiungere i 25 cm,  è verde esternamente e viola più o meno scuro internamente, in corrispondenza della fauce bianco-verdastra. Lo spadice non raggiunge la metà della lunghezza della spata; il tratto inferiore, pistillifero, è verde-giallastro: i pistilli, ovoidi,  mostrano un’aureola violacea, attorno allo stimma; sono 6-9 in ciascuna serie verticale.

 Subito sopra si collocano i fiori sterili, viola ed in doppio verticillo. Dopo un breve tratto nudo, seguono i fiori maschili,  sferoidali, lunghi un quarto della zona pistillifera. Il secondo tratto nudo è più lungo, seguito da un secondo gruppo di fiori sterili, molto numerosi, disposti in 4-6-8 verticilli. L’appendice dello spadice, lunga più della metà di esso, ha stipite viola scuro e clava, evidente e ben più lunga, cilindro-conica, colorata di purpureo con riflessi marroni.

Le bacche sono rosse e contengono 1-4 semi globosi o emisferici,  reticolati in superficie. La pianta vegeta in autunno, fiorisce ad aprile e  fruttifica in luglio.

Dal punto di vista ecologico, Arum apulum (Carano) D.C. Boyce è un’entità mediamente sciafila e mesofila, ritrovata a quote comprese tra 250 m s.l.m. e 420 m s.l.m., tipica di ambienti umidi ed ombreggianti, solo occasionalmente è stata ritrovata in aree aperte, comunque all’ombra, lungo i muretti a secco o riparata da altre piante (Bianco et alii, 1994).

Arum apulum sembra essere legato alla presenza di Q. trojana Webb. o alle formazioni miste Q. trojana- Q. pubescens s.l. e, quando sporadicamente ritrovato in altro tipo di formazioni, sempre  nell’areale di distribuzione del fragno. Frequentemente la specie convive con Arum italicum Miller, con il quale può formare degli ibridi naturali. Però Arum italicum Miller è specie fortemente polimorfa ed adattabile, talvolta ha carattere sinantropico e  ruderale.

A. apulum (Carano) D.C. Boyce, di contro, è specie esigente dal punto di vista ecologico e  soffre sia l’antropizzazione, che l’invasività dell’A. italicum Miller: per questo e per il suo areale fortemente circoscritto si configura come specie in pericolo d’estinzione ed è inserita nelle Liste Rosse nazionali  e regionali e segnalata come CR, gravemente minacciata.

Quanto al suo stato di conservazione nell’area studio va sottolineato che alcuni individui, ritrovati vicino i sentieri di percorrenza ed all’ombra di alcuni muretti a secco, appaiono in cattivo stato, probabilmente a causa dei diserbi chimici, che mirano a tenere libero il passaggio per i visitatori.

 

Quercus trojana Webb.

E’ una specie molto importante dal punto di vista fitogeografico: diffusa prevalentemente nella penisola balcanica, ha areale italiano limitato alla Puglia murgiana e al Materano. Fa parte, quindi, di quel gruppo di specie paleoegeiche o transadriatiche, che  in Puglia sono numerose   e che  testimoniano un antico collegamento  miocenico tra le due terre ora separate dal mare Adriatico.

Dal punto di vista sistematico il fragno pugliese non si distingue dal balcanico, e pare che anche la varietà macrobalana, con ghiande e foglie più grosse, descritta per la prima volta da Gavioli (1961), sia presente in tutto l’areale.

Naturalmente, la presenza di questa specie nella Puglia centrale non dipende solo dalle vicende geologiche di questa terra, ma è anche  sostenuta dalle idonee condizioni climatiche ed edafiche.   Difatti, il fragno, nome locale di questa specie, trova il suo optimum ecologico nelle Murge di Sud-Est: si spinge con individui più o meno isolati fin nelle Murge di Nord-Ovest, ma , nei rari boschi alto-murgiani,  ha un ruolo di netto subordine rispetto alla roverella (Q. pubescens s.l.) (Bianco et al., 1991)

La temperatura mite, sebbene più bassa che sul piano costiero, le temperature invernali notevolmente inferiori e le precipitazioni più elevate della costa e della Murgia di Nord-ovest, rappresentano caratteri a cui il fragno è perfettamente adattato. Inoltre, tale specie trova il suo optimum pedologico sulle terre rosse, ricche di humus, profonde e su calcare compatto, mostrando, in queste condizioni, grande vigoria ed una eccellente capacità pollonifera (Bianco et al., 1991). 

Si può descrivere questa specie come un alberello semideciduo,  alta massimo 15 m, con chioma arrotondata, ritidoma  scuro e rami giovani finemente pubescenti.

Le foglie sono ovali-lanceolate, coriacee, tardivamente caduche o semipersistenti, glabre o quasi, con la pagina superiore più scura  dell’inferiore. Esse sono lunghe da 3-7 (10) cm e larghe 1-3 cm con 8-14 coppie di denti ottusi e mucronati, hanno picciolo brevissimo e stipole lineari presto caduche.
I fiori maschili sono inseriti su amenti penduli lunghi 3-5 cm ed hanno 4 (5) stami; quelli femminili sono subsessili con 4-5 stili allungati.
La ghianda è ovoide, simile a quella del Cerro (2,5-3,5-4 cm) arrotondata alla base e mucronata  all'apice; la cupola è grande e legnosa, ricopre la ghianda per metà o due terzi; le squame esterne  sono lunghe fino a 6-7 mm, le inferiori  appressate, le mediane patenti e ricurve ad uncino, le superiori sono oblunghe ed erette. La ghianda matura nel secondo anno (subgenere Cerris) e non è dormiente (recalcitrante).

 

 

 

I boschi di Fragno in Puglia.

I fragneti costituiscono un tipo di vegetazione mediterranea, semidecidua di transizione, tra quella sempreverde e quella propriamente decidua,  collocabile  nell’orizzonte submontano delle caducifoglie amanti della luce e del sole, nell’area della più xerofila roverella.  Essi costituiscono sicuramente le formazione boschiva più caratteristica della Puglia, e, nei luoghi  più adatti, il fragno può formare uno strato arboreo denso e puro; spesso si fa più rado,  mescolandosi con la roverella ed altre essenze quercine, in varia misura. Il  sottobosco è costituito da una pseudomacchia mista di elementi sempreverdi e caducifogli e l’equilibrio si sposta a favore dell’uno o dell’altro  a seconda dell’esposizione, del terreno, del taglio degli alberi, ecc. (Francini Corti, 1966).

Si può pensare che esso un tempo i boschi di fragno occupassero più o meno diffusamente i pianori murgiani e che questo rivestimento continuo sia stato gradualmente frammentato dalle colture, in particolare vigneti, uliveti, seminativi, mandorleti, ecc. Attualmente tali boschi, notevolmente ridotti,  formano il necessario complemento delle masserie, per il pascolo del bestiame, per il rifornimento della legna da ardere o come “riserva” di caccia.  Si tratta di lembi alberati dell’estensione di pochi ettari, a copertura, solitamente, dei terreni più degradati dell’intero comprensorio delle Murge di Sud-est. Eccezionalmente si ritrovano anche sul fondo e sulle pareti delle lame, sui fianchi rocciosi e ripidi delle colline, rare volte in zone pianeggianti con suolo comunque scarso: in pratica si tratta di tutte quelle zone dove il dissodamento e la messa a coltura non mostra alcuna convenienza economica. (Bianco et al., 1991)

Gran parte dei fragneti pugliesi è segnalata, oggi, come bosco-ceduo: in realtà, nella grande maggioranza dei casi, si è in presenza di vasti pascoli arborati o di boscaglie rade e degradate, ovunque iper-sfruttate, con una componente cespugliosa ed erbacea xeromorfa,  eterogenea e differente da luogo a luogo.

La zona attualmente più boscosa della puglia centro-meridionale è quella che si estende da Cassano a Martina Franca, comprendendo i comuni di Santeramo, Gioia, Acquaviva, Turi, Putignano, S. Michele, Noci ed Alberobello.

Le forme di degradazione del fragneto sono abbastanza varie: diversi tipi di vegetazione arbustiva come macchie a lentisco, garighe  a cisti ( Cistus monspeliensis, C. incanus, C. salvifolius) o salvia (Salvia triloba e S. officinalis) o timo capitato (Thymus capitatus); ed erbacea come le praterie subnitrofile ad asfodelo (Asphodelus microcarpus),  a ferula (Ferula communis .), a tapsia (Thapsia garganica); ed ancora le praterie di tipo steppico a stipa (Stipa austroitalica)

  

 

La vegetazione potenziale di Monte Sannace.

Anche la vegetazione potenziale di Monta Sannace è ascrivibile al bosco di fragno. In realtà ci troviamo, molto probabilmente, al limite tra la vegetazione sempreverde mediterranea e quella caducifoglia del piano altitudinale superiore. Il bosco, infatti, come dimostrato dai lembi residui, è  arricchito da elementi arborei ed arbustivi sempreverdi tipici della lecceta e della macchia mediterranea come fillirea, terebinto e strappabraghe, ma comprende essenze più mesofile come la fusaria comune ed il cerro ed elementi più xerofili come la roverella.    

 

La controversa sistematica del genere Quercus in Puglia.

Dal punto di vista tassonomico, le querce caducifoglie dell’area mediterranea  sono sempre state considerate un gruppo piuttosto critico e controverso, a causa della loro variabilità morfologica, della loro capacità di adattamento a situazioni ecologiche ben differenziate, sia sotto il profilo geopedologico, che bioclimatico.

Tra i territori mediterranei, la Puglia rappresenta uno dei territori più interessanti per lo studio dei rapporti che possono intercorrere tra le varie specie del genere Quercus.  Nella regione, infatti, sono presenti oltre 10 specie quercine e numerosi ibridi e le relazioni che si stabiliscono tra le differenti specie o tra queste  e l’ambiente,  non risultano ancora totalmente esplorate e comprese.  Particolarmente complicato è il caso della Quercus pubescens s.l., per la quale si  osserva un’alta complessità tassonomica dipendente, con tutta probabilità, da diversi fattori:

ü      la vicinanza all’area tirrenica meridionale, corrispondente al centro di speciazione e diffusione del gruppo, a partire dal Terziario;

ü      la variabilità fenotipica osservabile anche nell’ambito di una singola popolazione;

ü      l’intenso disboscamento che, interessando l’area mediterranea fin dalla preistoria, ha frammentato le popolazioni geneticamente stabilizzate, favorendo un rimescolamento dei caratteri;

ü      l’impollinazione anemogama del genere Quercus, che favorisce il processo di ibridazione.   

Detto questo, in Puglia è stata ipotizzata la presenza di almeno 3 entità specifiche facenti parte del ciclo di Quercus pubescens s. l.. Tali specie, differenziate per alcuni particolari morfologici (cupola della ghianda, aspetto del ritidoma, pubescenza delle foglie) e per gli adattamenti ecologici, sono:

ü      Quercus virgiliana (Ten.) Ten.

ü      Quercus dalechampii Ten.

ü      Quercus amplifolia Guss.

Q. dalechampii Ten. è più tipica del piano montano, mentre Q. virgiliana (Ten.) Ten. e Q. amplifolia Guss. sono le specie più termofile, diffuse dal piano basale a quello submontano, a contatto coi boschi decidui o sempreverdi mesofile. Q. virgiliana (Ten.) Ten.  ha foglie più ridotte e ghiande più grandi rispetto a Q. amplifolia Guss., per cui risulta la specie più adattabile ad ambienti fortemente xerici.

Senza entrare nel merito di una questione complessa ed ancora irrisolta, si può dire, limitatamente all’area studio, la quercia caducifoglia più comune accanto al fragno sembra essere Quercus virgiliana Ten., identificata grazie alla chiave dicotomica messa a punto da Brullo et al. nel 1998, nel corso di uno studio sulle querce caducifoglie siciliane.

Non si esclude, tuttavia, la presenza di altre specie appartenenti al medesimo ciclo e, conseguentemente, di ibridi.

 Esemplari di Q. Trojana Webb. e Q. pubescens s.l. cresciuti in corrispondenza di una “specchia” sull’acropoli.

 

 

 

      

 Infiorescenze rispettivamente di Arum italicum MillerArum apulum (Carano) D.C. Boyce

 

 

Cynoglossum creticum Miller e Ophrys sphegodes Mill. subsp. Sphegodes.

 

Asphodeline lutea (L.) Rchb. e Nigella damascena L.

 

 Gagea foliosa ( J. & C. Presl) Schult. & Schult. F. e Verbascum macrurum L.

 

4.4 INDICI BIOECOLOGICI DI PIGNATTI-ELLEMBERG

 

Al fine di applicare il metodo di bioindicazione ecologica, proposto da Pignatti-Ellemberg, alla flora di Monte Sannace e non disponendo dei  dati vegetazionali, si è proceduto dividendo tutta l’area in tre sub-ambienti, individuati soprattutto su base fisionomica.

L’operazione di scomposizione è stata, oggettivamente, difficoltosa: il territorio si presenta  alquanto antropizzato e le componenti naturali appaiono frammentarie ed eterogenee, con una tensione percepibile, dovuta all’instabilità ambientale.

Diversi motivi rendono il territorio del parco un mosaico difficilmente risolvibile, tra cui:

ü      la prevalente vocazione archeologica del parco. Una cospicua porzione della superficie totale è, difatti, occupata da scavi ultimati o in corso d’opera e da sentieri di raccordo tra le diverse zone dell’antico abitato peuceta;

ü      la storica attitudine agricola di questo  territorio, che si concretizza nella presenza di campi coltivati, ex-frutteti, manufatti rurali di varia origine e grandezza, distribuiti in maniera random su tutta la sua superficie;

ü      l’istituzione abbastanza recente (1977) del vincolo ambientale.

Sicuramente la diminuzione del disturbo antropico dovuto all’agricoltura, da pochi decenni a questa parte, ha favorito il recupero della vegetazione spontanea, che, cominciato il processo di ricolonizzazione degli spazi, ha ripreso ad evolvere secondo  le proprie dinamiche.

Fatta questa doverosa premessa, i tre tipi fisionomici individuati sono:

ü      incolti;

ü      praterie;

ü      boscaglie.

 

Lo spettro ecologico (figura 18), che riassume la distribuzione delle 195 entità della Flora di Monte Sannace nell’ambito dei tre sub-ambienti, evidenzia che oltre la metà delle specie, pari al 54% del totale, sono state rinvenute negli incolti, oltre un quarto (32%) fanno parte delle praterie e solamente un settimo (14%) nelle “boscaglie”. Ciò non è tanto da mettere in relazione con la minore o maggiore ricchezza floristica dei sub-ambienti considerati, quanto da collegarsi,  in proporzione, alla superficie occupata rispettivamente dai 3 tipi fisionomici.

Sono stati considerati come “incolti” tutti quei sub-ambienti interessati, in maniera più o meno massiccia, da disturbi antropici di vario tipo, quali: diserbo,  operazioni di scavo archeologico,  calpestio,  coltivazioni ecc. Sono state incluse in questa categoria le aree archeologiche in senso stretto e quelle limitrofe o di raccordo, le aree attorno ai manufatti rurali,  i sentieri per i visitatori, le aree a carattere più spiccatamente rurale, i campi trattati con periodici diserbi.

Essi si caratterizzano per la assoluta prevalenza di specie annuali e ruderali, con una quota importante di specie cosmopolite e contraddistinte da grande abbondanza e dominanza e dalla formazione, stagionale, di popolamenti quasi monospecifici; gli esempi più significativi sono Cyonodon dactylon (L.) Pers., Amaranthus blitoides S. Watson, Chenopodium album L.  ecc.

Nella categoria “praterie” sono state raccolte le aree a vegetazione erbacea prevalente, meno disturbate dagli interventi antropici, soprattutto in virtù della loro collocazione periferica rispetto alle aree archeologiche. In questo sub-ambiente ritroviamo specie sia annuali, che bienni e perenni e la generale  fisionomia ricorda le ben più ricche praterie steppiche mediterranee;  tra le specie presenti abbiamo  una buona quota di Poaceae (Dasypirum villosum (L.) P. Candargy, Avena sterilis L., Briza maxima L., Lagurus ovatus L.) e una discreta presenza di specie quali Ferula communis L.,  Verbascum  blattaria L., Verbascum macrurum Ten. , Verbascum  pulverulentum  Vill. ecc

Le aree a “praterie” rappresentano l’ultimo stato di degradazione della macchia mediterranea e, in un ambiente dinamico come quello di Monte Sannace, in cui esse sono inframezzate da aree cespugliose,  paiono indirizzate verso la rapida colonizzazione da parte delle specie pioniere di macchia mediterranea.

Le aree a “boscaglia” sono  le più limitate in superficie e  comprendono tutte le porzioni di più difficile accesso, per uomini e mezzi (morfologia più accidentata, rilevante pietrosità superficiale ecc), quindi libere, da un tempo più lungo, dalle pressioni antropiche.  Sotto il termine “boscaglia” vengono comunque raccolti più tipi di vegetazione, accomunati semplicemente dalla prevalenza di specie arbustive ed arboree, con una certa tendenza a “chiudersi”. Accanto al leccio ( Quercus ilex L.),  alla fillirea (Phillirea latifolia L.) ed al terebinto (Pistacia terebinthus L. ) caratteristiche della foresta sempreverde mediterranea, si trovano altre essenze come la roverella (Quercus pubescens s.l.), il fragno (Quercus trojana W.), la fusaggine (Euonymus europeus L.)  più mesofile e specifiche della foresta mediterranea decidua.

Per la costruzione degli ecogrammi, che riassumono figurativamente la condizione ecologica della stazione indagata, il secondo passo, seguente alla scomposizione del territorio, è stato assegnare ciascuna specie al suo ambiente. A questo proposito va detto che molte delle specie riscontrate, data la valenza ecologica più o meno ampia e la “frammentazione” dell’ambiente, sono state ritrovate in più di un sub-ambiente. In questi casi, per cercare di ottenere ecogrammi più significativi, la specie è stata assegnata ad uno solo tra essi, scelto perché ospitante la popolazione più cospicua quantitativamente o perché ritenuto, per considerazioni  ecologiche, il  più “idoneo”ad essa.

Dopo l’operazione di attribuzione specie-ambiente, a ciascuna specie dell’elenco floristico sono stati assegnati i corrispondenti indici bioecologici di Pignatti-Ellemberg.

Successivamente sono state  calcolate le medie dei 6 fattori bioecologici principali (Luce, temperatura, Continentalità, Umidità, Reattività del suolo, Nutrienti) separatamente per i tre ambienti; tali medie sono state impiegate  per la costruzione di tre ecogrammi, uno per ambiente  (figure 19, 20, 21).

Un quarto ecogramma (figura 22) è stato realizzato con la stessa metodologia, però utilizzando, questa volta, tutte le specie della Flora di Monte Sannace, per avere una visione d’insieme delle sue caratteristiche bio-ecologiche ed operare confronti.

 

Spettro ecologico di Monte Sannace.

Ecogramma relativo al sub-ambiente “praterie”.

 Ecogramma relativo al sub-ambiente “incolti”.

 Ecogramma relativo al sub-ambiente “boscaglia”.

 

 Ecogramma riassuntivo della Flora di  Monte Sannace.

 

La comparazione dei tre ecogrammi parziali ha rivelato che:

ü      il fattore per cui i tre ecogrammi differiscono maggiormente è la Luce (L), che è massimo nell’ambiente “prateria” con un valore di 8,51 e minimo nella “boscaglia” con appena 5,85;

ü      c’è una sensibile differenza anche per il fattore Temperatura, ancora una volta massimo nelle “praterie” (7,70), leggermente minore nella boscaglia (7,40), ancora più basso (6,12)  negli incolti. Questa differenza notevole tra boscaglie-praterie ed incolti potrebbe essere dovuta alla maggiore presenza, nell’ambito degli “incolti”, di specie cosmopolite e sub-cosmopolite, poco esigenti dal punto di vista termico.

ü      il valore del fattore Continentalità non mostra differenze degne di nota ed assume  comunque un valore leggermente minore per la “boscaglia” rispetto agli altri due, collocandosi ovunque entro la media;

ü      il fattore Umidità ha, come prevedibile,  valore maggiore nel sub-ambiente “boscaglia” (3,88), rispetto agli incolti (3,37) ed alle “praterie” (3,12), il sub-ambiente più secco tra tutti.

ü       La Reattività del suolo ( R ) non mostra  significative differenze.

ü      I Nutrienti hanno, come nelle previsioni, maggiore valore nell’ambiente più antropizzato, ovvero gli incolti (4,27), leggermente minore nella boscaglia e significativamente meno  per le praterie (3,49), un tipo di vegetazione tradizionalmente adattata a suoli poveri.

 

Confrontando l’ecogramma riassuntivo della Flora di Monte Sannace (figura 22)   con gli ecogrammi relativi ai singoli sub-ambienti (figure 19, 20, 21) si può dedurre quale sub-ambiente assume maggiore  importanza nel definire le caratteristiche generali dell’area. La comparazione permette di desumere che:

ü      il fattore Luce, il più variabile tra gli ecogrammi parziali, si avvicina parecchio agli “incolti” (7,80), influenzato, in generale, dalla prevalenza di specie eliofile sulle sciafile nella Flora di Monte Sannace;     

ü      la Temperatura (7,52) assume dei valori vicini al sub-ambiente “prateria” e “boscaglia”, discostandosi dagli “incolti”, a testimonianza del carattere termofilo di questa  Flora;

ü      la Continentalità si assesta su valori (4,79) vicini agli “incolti” ed alle “praterie”, più distanti dalla “boscaglia”;

ü      i valori di Umidità (3,36 ) sono vicinissimi al sub-ambiente ”incolti” (3,37);

ü      la Reattività, non mostrando significative variazioni tra i tre sub-ambienti, risulta intermedia tra “incolti” e “praterie” e si discosta maggiormente dalla “boscaglia”.

ü      i Nutrienti risultano mediamente bassi (3,95) ed intermedi tra i valori del sub-ambiente “boscaglia” e le “praterie”.

 

Complessivamente si può dire che sulla costituzione della Flora di Monte Sannace incide maggiormente il sub-ambiente “Incolti”, presumibilmente per la maggior superficie da esso occupata rispetto agli altri due. 

 

 

 Ecogramma della Flora d’Italia (Pignatti et al. 1995)

 

Fattori

L

T

C

U

R

N

Media

7,69

6,05

5,92

4,42

4,45

3,25

 

Tabella 6: valori numerici delle medie dei sei fattori principali calcolati per la Flora d’Italia ( Pignatti e al., 1995).

 

 

 

 La “boscaglia”  che cresce nelle aree periferiche del Parco, a ridosso delle mura di cinta della città bassa portate alla luce durante un recente  scavo archeologico.

 

Un “incolto” nei pressi dell’acropoli. Sullo sfondo un trullo, manufatto rurale ora a servizio dei visitatori.

 

  

4.5 L’INDICE DI PERICOLOSITA’ DELLE SPECIE ED IL CONTROLLO DELLE INFESTANTI

 

L’Indice di Pericolosità è stato calcolato per ciascuna specie dell’elenco floristico,  valutando e sommando tre parametri (categoria biologica, vigore ed invasività, tipo di apparato radicale), come illustrato nel paragrafo 3.5 e seguendo lo schema in tabella 4.

Nel corso del campionamento nel parco archeologico in campo, solamente 22 specie sono state rinvenute in stretta vicinanza dei manufatti, tuttavia l’Indice di Pericolosità è stato calcolato per tutte le 195 entità della flora di Monte Sannace, in modo da fornire uno strumento utile per la corretta gestione dei rapporti manufatti-vegetazione non solo nel presente, ma anche in un futuro in cui le aree  archeologiche potrebbero, ad esempio, allargarsi ad altre aree del Parco o essere colonizzati da nuove entità. 

Oltre all’indice di Pericolosità, per ciascuna specie sono stati valutati, seguendo la proposta di Signorini (1996), l’abbondanza nell’area studio ed il valore estetico, con l’aggiunta di un nuovo parametro, il “valore naturalistico”, indispensabile visto il contesto in cui si opera.

In allegato (Allegato B) l’elenco floristico, in cui a ciascuna specie è associato l’Indice di Pericolosità, assieme alle espressioni  di abbondanza, valore estetico e valore naturalistico nell’area di Monte Sannace.

Dall’analisi del diagramma a torta (figura 26), che rappresenta la distribuzione percentuale degli I.P. tra le specie di Monte Sannace, si può dedurre che:

ü      la maggior parte delle specie rilevate sono  poco pericolose per i manufatti,  dato che  107 di esse, pari al  56%,  hanno un Indice di Pericolosità valutato tra 0 e 3;

ü      62 specie, pari a circa il 32% del totale hanno un Indice di Pericolosità intermedio tra 4 e 6 e sono, pertanto, mediamente pericolose.

ü      22 specie, pari all’ 11% , hanno un Indice di Pericolosità compreso tra 7 a 10 e sono, pertanto, altamente pericolose per i manufatti.

ü      La specie più pericolosa è certamente Ficus carica, data la notevole invasività del suo apparato radicale, capace di penetrare a fondo nei manufatti. Altre specie potenzialmente molto dannose sono Olea europea L. e Hedera helix L., valutate con un indice di pericolosità 9.  Seguono tutte le specie legnose del genere Quercus, del genere Prunus e gli arbusti di macchia. Tali specie non costituiscono un pericolo immediato per i manufatti, giacché non sono state trovate in  prossimità dei manufatti.

ü      Le specie più abbondanti dell’area sono, a grandi linee, comprese nelle “poco pericolose”.

 

Le specie rinvenute a ridosso dei resti archeologici sono 22, vale a dire:

Adonis microcarpa D.C. subsp. microcarpa

Arabis verna (L.) R. Br.

Asparagus acutifolius L.

Chenopodium album L.

Diplotaxis erucoides (L.) D.C. subsp. erucoides

Draba muralis L.

Erophila verna (L.) D.C. s.l.

Fumaria capreolata L. subsp. capreolata

Fumaria officinalis L. s.l.

Geranium molle L.

Lathyrus ochrus (L.) D.C.

Medicago scutellata (L.) Mill.

Myosotis incrassata Guss.

Phedimus stellatus (L.) Raf.

Reseda lutea L. subsp. lutea

Saxifraga tridactylites L.

Sedum rubens L.

Trifolium angustifolium L. subsp. angustifolium

Umbilicus horizontalis (Guss) D.C.

Veronica hederifolia s.l.

 

Tali specie, abbondanti anche negli incolti, hanno tutte un Indice di Pericolosità basso, eccetto 3 di esse, Reseda lutea L., Umbilicus horizontalis (Guss) D.C. e Asparagus acutifolius L., con indice intermedio; esse  non comportano grossi rischi per i resti archeologici, sono abbastanza comuni nel nostro territorio ed hanno  uno scarso valore naturalistico, per cui la loro eventuale eliminazione non pone questioni di carattere conservazionistico. 

In conclusione, si può affermare che, le misure per il controllo della vegetazione, applicate al Parco di Monte Sannace, risultano, complessivamente,  abbastanza idonee ed adeguate alla situazione attuale. L’unico accorgimento auspicabile, nella gestione della Flora del parco, sarebbe una maggiore attenzione verso l’ Arum apulum (Carano) D.C. Boyce, che andrebbe, certamente, maggiormente tutelato, in qualità di specie endemica iscritta nelle Liste Rosse nazionali e regionali con lo status di “gravemente minacciata”; un discorso analogo vale per la Gagea foliosa ( J. & C. Presl) Schult. & Schult. F., segnalata nella Liste Rosse Regionali come “specie vulnerabile”.  Si potrebbe cominciare da una maggiore attenzione da parte degli operatori che compiono i diserbi ed, eventualmente, proseguire con opportune ed idonee azioni di tutela mirate alla specie ed al suo habitat.

L’indice di Pericolosità si propone, comunque, quale strumento di gestione futura, per cui:

ü      le specie poco pericolose (I.P < 4) , in linee generali, possono essere ignorate durante le operazioni di diserbo;

ü      le specie molto pericolose (I.P. > 7) vanno, senza dubbio, eliminate coi mezzi più opportuni;

ü      per le specie mediamente pericolose ( 4 < I.P.< 6) l’eventualità di eliminazione va valutata caso per caso, tenendo conto degli altri parametri quali valore naturalistico in primis, a seguire il valore estetico.

 

E’ indispensabile, inoltre,  nelle future operazioni di controllo della vegetazione, cercare di  salvaguardare specie rare e protette come Arum apulum (Carano) D.C. Boyce e Gagea foliosa( J. & C. Presl) Schult. & Schult. F., con un elevato valore scientifico-conservazionistico.

 

 Distribuzione percentuale dell’I.P.  tra le specie di Monte Sannace.

 

 

 Un individuo di  Fumaria capreolata L. subsp. capreolata vegeta negli interstizi delle  mura  della città bassa, prima del diserbo primaverile.

 

 

5. CONCLUSIONI

 

 

In questa tesi sono state studiate le caratteristiche ambientali e floristiche del Parco Archeologico e Naturale di Monte Sannace. Lo scopo del lavoro è  duplice: innanzitutto compiere un primo passo verso una conoscenza scientifica più approfondita della componente botanica del Parco; di pari rilevanza è stato l’intento di investigare le relazioni tra resti archeologici e piante, al fine di proteggere questa pregevole testimonianza del nostro passato.

Questa tesi, attraverso l’utilizzo dell’Indice di Pericolosità,  contribuisce a fornire un ulteriore strumento per la gestione ottimale della componente vegetale, distinguendo tra specie realmente pericolose e, pertanto, da eliminare senza alcun dubbio (quelle con I.P.>7), specie mediamente pericolose ( 4 <I.P.< 7) per le quali si dovrebbe valutare di volta in volta, valutando anche altri aspetti, se e come agire,  e specie poco pericolose (I.P.< 4), le quali non vale la pena eliminare.

Lavorando con diserbi chimici, ed adoperando prodotti ad applicazione localizzata come il glifosate, l’operatore potrà scegliere se eliminare la specie che ha di fronte o meno, in base alla sua concreta nocività nei confronti dei manufatti. Il glifosate, così come dimostrato in altre aree archeologiche, si presta a questo tipo di interventi, giacché è totalmente biodegradabile e privo di effetti nocivi, sia sull’ambiente, che sull’uomo.

La flora di Monte Sannace conta 195 entità, distribuite in 53 famiglie, con asteraceae, fabaceae e poaceae che abbracciano la maggior parte delle specie; essa, in linee generali,  è fortemente condizionata dalla forte pressione antropica passata e presente, limitatamente alle zone limitrofe ai resti archeologici: dominano, infatti, come copertura ed abbondanza, specie erbacee sinantropiche e ruderali, di scarso pregio naturalistico.

Non mancano, però, componenti floristiche e fisionomiche degne di attenzione, ad esempio i lembi boscosi che occupano le parti periferiche e più accidentate, dominati da specie quercine come Q. trojana Webb., Q. ilex L. e Q. virgiliana (Ten.) Ten..

 Tali boscaglie appaiono in ripresa e, lentamente, stanno colonizzando gli spazi aperti; esse, situate in una fascia intermedia tra i querceti sempreverdi mediterranei e quelli caducifogli, si potrebbero prestare tanto a ulteriori ricerche sulla dinamica della vegetazione mediterranea, quanto a “strumento didattico” sul campo per l’educazione ambientale. 

 Dal punto di vista naturalistico il parco possiede una peculiarità floristica preziosissima: l’Arum apulum (Carano) D.C. Boyce., presente solo in alcune località delle Murge di sud-est, tra cui Monte Sannace, luogo in cui Carano lo identificò per la prima volta.  Questa specie, correlata tassonomicamente alla specie balcanica Arum nigrum Schott, è a forte rischio estinzione, perché molto esigente dal punto di vista ecologico: vegeta, infatti, all’ombra dei boschi di fragno o in zone, un tempo boscose e   comunque umide; risente della competizione con il più rustico Arum italicum Miller e della antropizzazione crescente del suo habitat. E’, perciò, presente nelle Liste Rosse nazionali con lo status di CR (gravemente minacciato) e meriterebbe non solo particolari misure di protezione, ma anche studi più approfonditi sulla attuale estensione del suo areale.

Dunque il Parco di Monte Sannace, oltre che essere un importante sito archeologico rappresentativo della Puglia preistorica, può essere una apprezzabile occasione per la protezione e studio di questa specie in situ.

Nel corso dei sopralluoghi sono anche state individuate piccole aree, estremamente singolari, dove la flora si arricchisce di entità di ambiente certamente più umido del tipico pascolo arido murgiano, ovvero Elymus repens (L.) Gould., Epilobium tetragonum L.; anche tali aree meriterebbero  di essere studiate più  a fondo.

In ogni caso, uno studio vegetazionale dell’intera area sarebbe auspicabile,  considerando che era stato inizialmente previsto per questa tesi, ma non è stato nemmeno cominciato, per mancanza di tempo.

 

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